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L'ESPRESSO
26 luglio 2007
Una procura anti-terrore
di Peter Gomez
e Leo Sisti

Una realtà frammentata. E più difficile da controllare. Per questo servono una centrale di indagine e un'unica banca dati. Parla il coordinatore del pool milanese. Colloquio con Armando Spataro


L'indagine di Perugia conferma le analisi degli ultimi due anni. Oggi il grande pericolo è rappresentato dal qaedismo spontaneo, o se preferite, dai 'terroristi fai da te' che con poca o nessuna preparazione, come è già accaduto a Londra nel 2005, decidono di farsi saltare in aria. Ma proprio perché si tratta di gente non organizzata o che fa capo a un'unica organizzazione, il rischio è maggiore. Individuarli infatti è molto difficile...

All'indomani dell''Operazione Hamman' che in Umbria ha portato in carcere tre marocchini, e tra questi l'imam di una moschea perugina, il procuratore aggiunto Armando Spataro, il cordinatore del pool antiterrorismo di Milano, accetta di rispondere alle domande de 'L'espresso'. Una chiacchierata a tutto campo sui nodi caldi del contrasto ad Al Qaeda e agli altri gruppi del radicalismo islamico: il ruolo dell'intelligence, il rapporto con gli americani dopo il caso Abu Omar e le grandi scelte della politica nazionale e internazionale.

Dottor Spataro, cominciamo proprio da qui, dalla politica: le aperture di D'Alema verso Hamas o la proposta, accolta con favore in Italia e all'estero, di organizzare una conferenza sull'Afghanistan possono avere qualche influenza su questo tipo di scelte oppure il terrorismo è indifferente...
"Non v'è dubbio che si tratti di iniziative positive, utili. Ovviamente è facile sparare su atteggiamenti come quelli della Lega ('chiudere tutte le moschee'). Questo rappresenta l'estremizzazione delle tesi tipo: 'No al dialogo, erigiamo delle muraglie', eccetera. La mia assoluta convinzione è che invece la strada da battere è quella del dialogo. Noi non possiamo minimamente pensare, in Italia e in Europa, nelle nostre democrazie occidentali, che si possa isolare e sconfiggere chi predica prima e compie poi atti di terrorismo senza la collaborazione del mondo islamico. Ciò comporta il rispetto dell'identità religiosa o della libertà di culto che peraltro non è l'invenzione di qualche matto, ma che esiste nella Costituzione. Si deve cercare questa collaborazione. Bisogna coltivare con intelligenza questi rapporti, non possiamo pensare di dare la caccia agli estremisti solo con le microspie e con le indagini".


È un invito alla delazione?
"La delazione è un fatto molto preciso. Significa dare indicazioni, fare dichiarazioni confidenziali. Il codice lo prevede. Ma io sto parlando di un'evoluzione culturale, perché nelle relazioni con queste comunità bisogna far emergere la nostra disponibilità al colloquio, all'integrazione, al rispetto reciproco. Negli ultimi tempi abbiamo avuto prove di fiducia nei nostri confronti. La polizia italiana sta facendo il suo dovere".

Possiamo quindi essere ottimisti?
"Meglio essere prudenti. Quanto avvenuto a Perugia dimostra che siamo di fronte a una realtà estremamente frammentata, non legata a un centro decisionale unico, alla sigla Al Qaeda. Per questa ragione è difficile indagare sui 'terroristi fai da te'. Se fossero componenti di un'organizzazione unitaria basterebbero le intercettazioni e i collaboratori di giustizia (in Italia ne abbiamo tre) per andare più a fondo. Comunque il livello di pericolosità delle cellule non è individuabile a priori. Molto dipende dalle realtà in cui operano. In Spagna e Gran Bretagna i terroristi sono figli di immigrati di seconda e anche di terza generazione. In Italia non ce ne sono. Da noi non è facile che uno voglia commettere un attentato e possa prepararlo insieme a qualcuno residente in Italia senza che la polizia non abbia i sensori per identificarlo".

In ogni caso molti osservatori sottolineano come il nostro paese rappresenti solo una base logistica e di reclutamento...
"Non facciamoci troppe illusioni. Il fatto che finora non ci siano state bombe non significa che non potrebbero essercene. Pensate alla Spagna. Anche lì, prima della strage di Madrid, gli estremisti islamici sembravano limitarsi a mansioni di supporto. Per fortuna noi abbiamo ormai alle spalle un grosso lavoro degli investigatori che hanno un'ampia e approfondita conoscenza di certi ambienti. Questo ci ha fin qui consentito di intervenire a tempo debito. Per carità, si può essere smentiti il giorno dopo... Ma una delle ragioni per cui in Italia non abbiamo vissuto momenti drammatici come altrove, è anche dovuta proprio a questo".


E i servizi segreti?
"Sarebbe sciocco negarne l'importanza. Ma l'intelligence deve fare indagini, prevenzione. Deve raccogliere informazioni con modalità che non sono quelle formali, con procedure che non comportano l'obbligo di riferire all'autorità giudiziaria. Il disegno di legge sui servizi segreti in discussione contempla infatti delle cause di giustificazione, se ne può criticare l'ampiezza, ma è corretta la previsione di un meccanismo di assunzione di responsabilità politica. Però i servizi, quando incappano in notizie di reato sono obbligati a girarle alla polizia giudiziaria. Questo è il loro compito. Invece nel recente passato abbiamo assistito alla creazione di vere e proprie bufale come, ad esempio, la diffusione sulla stampa della storia di una scuola di kamikaze attiva in Lombardia. Anche per questi fatti sono in corso procedimenti per calunnia. Ma, se si tratta d'informazioni serie non è lecito propalarle, se invece sono prive di fondamento non si fa altro che creare ingiustificato allarme".

L''operazione Hamman' di Perugia è il primo caso di applicazione del nuovo articolo 270 quinquies, introdotto nel 2005 con il famoso 'pacchetto Pisanu': si punisce l'"addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale". Occorre altro, si può fare qualcosa di più?
"Sul piano normativo, no. Abbiamo però bisogno di una Procura nazionale antiterrorismo e di una banca dati. Oggi siamo costretti ad organizzarci tra noi: come durante gli anni di piombo, ogni 40 giorni i pm che si occupano della materia si riuniscono dove possono per scambiarsi dati e informazioni".

Insomma, anche voi siete un pool nazionale antiterrorismo 'fai da te'. Ma con i paesi esteri come va la collaborazione?
"Abbiamo rapporti stabili e solidi, un vero asse, con Germania e Spagna. Ma anche con Olanda, Belgio e Francia".

Non ha citato gli Stati Uniti. Al recente convegno di Firenze sul terrorismo sponsorizzato dalla New York University, ci sono stati aspri scontri dialettici con alcuni esperti americani. Secondo loro noi europei non riusciamo a capire i problemi della sicurezza. Che cosa è successo?
"Non si tratta di accusare questo o quell'esponente della Washington politica. Il problema è che esiste una radicale differenza nel concepire la lotta al terrorismo. Sono rimasto colpito quando in quel meeting alcuni rappresentanti dell'amministrazione americana hanno detto entrambi cose diverse, ma ugualmente significative. Uno ha affermato: "Noi dobbiamo utilizzare, cosa che voi non fate in Europa, principalmente i servizi segreti, perché sono capaci di capire mentalità, cultura e religione degli islamici". Io sono rimasto sorpreso perché da noi i più giovani carabinieri o poliziotti, preposti a questo tipo di attività, hanno esattamente questo genere di cultura, sono in grado di 'parlare' con i componenti dei gruppi sotto inchiesta. Quindi una cultura di contrasto al terrorismo tramite la conoscenza. Una signora, sempre dell'amministrazione Usa, di fronte alle critiche su Guantanamo, ha anche precisato: "Beh, sì è vero, non si può affermare che l'insieme delle regole in uso a Guantanamo siano compatibili con la convenzione di Ginevra. Per questo bisogna cambiarla". Un altro, a proposito della differenza dei due sistemi, quelli dei paesi di Common Law, cioè gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, e quelli dell'Europa continentale, ha dichiarato: "È il momento che il governo americano e quelli europei si mettano intorno a un tavolo e stilino precise regole di comportamento. Però con la nostra riserva di disapplicarle". Questo è ovviamente inaccettabile...".

Da qualche tempo le 'lezioni' di terrorismo avvengono via Internet. Sulla Rete circolano ormai veri e propri manuali che insegnano a trattare le sostanze chimiche e a fare le bombe. Si può frenare in qualche modo questo fenomeno?
"Questo è un campo dove la cooperazione mondiale è necessaria. Qui subentrano problemi di tecnologia informatica, non facilmente risolvibili, come quello di impedire l'accesso a certi siti. Però vanno affrontati. Credo si possa intervenire sui provider. Ma molto dipende dalla volontà della comunità internazionale".




INES TABUSSO