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LA STAMPA
25/6/2007
Ergastolo dibattito fuori tempo
CARLO FEDERICO GROSSO

Un’ipotesi di superamento dell’ergastolo, suggerita dalla Commissione di riforma del codice penale che sta lavorando al ministero della Giustizia, ha riacceso la discussione sulla condanna a vita. Si tratta, in realtà, di una polemica sterile. Le conseguenze dell’abolizione dell’ergastolo sono, infatti, più che altro teoriche, dal momento che già oggi chi è condannato alla pena perpetua di regola rimane in carcere al massimo 28 anni in forza dei meccanismi di liberazione anticipata previsti per chi ha tenuto buona condotta durante la detenzione. Proprio la previsione della liberazione del condannato consente, d’altro canto, di evitare che la pena perpetua violi il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena. L’ergastolano che dimostra ravvedimento può infatti ottenere la cessazione della detenzione; anche l’ergastolo, quindi, può essere utilmente finalizzato alla rieducazione. Difficilmente si potrà, d’altronde, sostenere che una pena così congegnata infranga, di per sé, i livelli dei diritti umani.

Sei anni fa una Commissione di riforma del codice penale da me presieduta aveva, in realtà, già previsto l’eliminazione dell’ergastolo, e la sua sostituzione con una pena di «reclusione speciale» elevata e dura nella sua esecuzione. Si trattava, peraltro, di una provocazione. Come si spiegava nella Relazione al Progetto, con tale proposta si intendeva, soprattutto, sottolineare l’esigenza di rendere effettivo anche nei confronti degli ergastolani un trattamento rieducativo in grado di garantire il presupposto della loro liberazione. Nessuno si sarebbe, poi, scandalizzato se il potere politico avesse optato per il mantenimento formale della detenzione perpetua, purché inserita in un sistema di esecuzione penale in grado di dare completa attuazione al principio della funzione rieducativa (anche) di tale pena.

Tanto che oggi mi sembra di potere affermare senza difficoltà che, di fronte alle preoccupazioni manifestate nei confronti della ventilata abolizione, giuste o sbagliate che siano, tanto vale mantenere, formalmente, l’ergastolo. Saranno poi le valutazioni espresse sulla personalità del singolo condannato a dirci, anni dopo la sua incarcerazione, se egli potrà tornare libero in ragione della sua acquisita condizione di persona non più pericolosa per la società. In realtà, i problemi ai quali si dovrebbe porre oggi attenzione in tema di politica delle pene sono altri rispetto a quello concernente l’ergastolo. Come è noto, secondo un orientamento politico-criminale diffuso, il carcere dovrebbe costituire una extrema ratio; vale a dire, dovrebbe essere utilizzato soltanto con riferimento ai reati, o ai soggetti, nei cui confronti appare assolutamente necessario. Negli altri casi occorrerebbe utilizzare, invece, sanzioni penali alternative consistenti in divieti di attività, in prestazioni, nel pagamento di somme di denaro. In questa prospettiva i progetti di riforma del codice penale si sono sbizzarriti nell’elaborare il quadro di queste possibili pene diverse dal carcere: oltre a quella pecuniaria, sospensioni, interdizioni, divieti di vario genere, prescrizioni comportamentali, lavoro di pubblica utilità, remissione in pristino dei luoghi, libertà sorvegliata. Le premesse criminologiche di questa nuova impostazione sono individuabili nella, ritenuta, inutilità del carcere come strumento di dissuasione forte dal commettere reati; nella conseguente convinzione che esso possa essere, opportunamente, sostituito da pene meno costose e, magari, addirittura utili per la collettività; nella convinzione che la detenzione costituisca, nella maggioranza dei casi, strumento di vessazione dei condannati; nella constatazione che, se si prescinde da specifiche tipologie di delitti o di delinquenti, i condannati definitivi che scontano effettivamente la pena sono, nel nostro Paese, per diverse ragioni, pochi.

In linea di principio queste considerazioni sono condivisibili. In pratica dare un’attuazione ragionevole a questo nuovo orientamento politico-criminale mi sembra questione molto delicata. Non vorrei infatti che, sull’onda di un superficiale entusiasmo per le nuove idee, o dei buonismi faciloni che già hanno recato gravi danni con l’approvazione di leggi come quella recente in materia d’indulto, si finisse per dimenticare il nodo dell’efficienza della giustizia e della difesa sociale contro la criminalità anche bagatellare. Sarebbe grave, perché i problemi dell’ordine pubblico sono oggi rilevanti, perché la sensazione d’insicurezza dei cittadini sta montando, perché, di conseguenza, i cittadini non capirebbero una rinuncia massiccia e programmata alla previsione delle pene tradizionali. Semmai, chiedono proprio l’opposto, cioè pene certe, inflessibilità nella loro esecuzione, mano dura contro i recidivi. Desta scalpore, fra la gente, che ladri, scippatori, rapinatori, truffatori, e altri delinquenti pericolosi per la società, frequentemente non siano arrestati, se sono arrestati vengano subito scarcerati, se sono condannati non scontino sovente la pena irrogata.

La politica non può ovviamente appiattirsi, nelle sue scelte politico-criminali, sugli umori e sulle paure della gente. Neppure può tuttavia ignorarle; costituirebbe ulteriore ragione di distacco fra società e palazzo. E allora attenzione. Forse, prima di pensare alla realizzazione di radicali modifiche del sistema delle pene nel quadro di una riforma generale del codice penale sarebbe opportuno assicurare le condizioni elementari di una giustizia rapida, efficiente, in grado di restituire sicurezza ai cittadini. Questo, ho l’impressione, i cittadini pretendono oggi come priorità. A questa esigenza la politica deve dare risposta prioritariamente.



INES TABUSSO