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L'UNITA'
24 luglio 2006
L’ex magistrato, oggi deputato, boccia il provvedimento
«Io dico no, non possiamo farci ricattare dalla destra»
di Maria Zegarelli/ Roma


«Non lo voterò mai un documento così. Se questo indulto è il frutto delle imposizioni, non del dialogo, della Cdl, allora andiamo alle elezioni anticipate e vediamo cosa succede. Non si può cedere ai ricatti. Noi abbiamo fatto una campagna elettorale parlando delle “leggi ad personam”, delle leggi vergogna...». Gerardo D’Ambrosio, membro dell’Ulivo della Commissione Giustizia alla Camera. dopo il ministro Antonio Di Pietro, dice «no» all’indulto.
Anche lei come il ministro Di Pietro boccia l’indulto. Perché?
Perché qualsiasi provvedimento di amnistia e indulto serve solamente a differire la soluzione dei problemi della giustizia.
Lei da dove inizierebbe?
Il problema principale è quello della lunghezza dei procedimenti, che hanno una durata media di 8 anni, eccessiva per qualsiasi stato civile, si potrebbe partire da qui, intanto. L’altro intervento immediato dovrebbe essere la limitazione della sanzione penale. Dopo aver sentito la relazione che lo stesso ministro Mastella ha fatto in commissione Giustizia, ho presentato un disegno di legge per abrogare le sanzioni previste dalla legge Bossi-Fini che ogni anno, secondo i dati del ministero, portano in carcere 11.500 persone, che, attenzione, non hanno commesso un reato o un delitto ma sono entrati clandestinamente. L’abolizione di queste norme comporterebbe una consistente diminuzione dei detenuti.
Quindi il suo è un no senza appello?
Il mio è un no deciso. Non posso fare conti millimetri - un indulto di tre anni è un fatto eccezionale, oltre che spropositato - ma dovrebbero uscire circa 37mila detenuti con questo provvedimento. Secondo i dati pubblicati dall’ex ministro Castelli, questo indulto cancellerebbe circa 70 mila sentenze di condanna, perché tanti sono i cosiddetti decreti di sospensione. Infine: secondo la detrazione di 3 anni, ci sarebbero una serie di detenuti che per effetto di questo condono potrebbero beneficiare dell’affidamento ai servizi sociali e non sappiamo quanti potrebbero essere.
Ma le carceri scoppiano, un intervento è ritenuto necessario da tutti, o quasi.
Mi rendo conto, sono il primo a dirlo, che i nostri detenuti sono portati a soffrire di un sovraffollamento, e questo è un fatto dovuto a un’inadempienza dello Stato. In tutti gli altri stati, per esempio in Germania, sono state strutturate carceri in cui il 100% dei detenuti lavorano, da noi la percentuale è del 10%. Inoltre, se la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento nella vita sociale, forse una strada che si poteva seguire in alternativa all’indulto per sfollare le carceri era quella di togliere i tossicodipendenti e gli alcoldipendenti, che sono il 30%, dagli istituti di pena e trasferirli nelle comunità terapeutiche. Forse non tutti sanno che un detenuto costa allo Stato 3.500 euro al mese.
Di Pietro definisce questo indulto un colpo di spugna a cui neanche la Cdl era mai arrivata. Condivide?
Sì, è vero, durante il precedente governo si fece un indultino di un anno, tra l’altro molto condizionato. Secondo me stavolta si è esagerato nell’elevare il limite massimo dell’indulto, ci si poteva fermare a un anno.
Secondo il ministro delle Infrastrutture si è fatto tutto questo, compreso includere i reati fiscali, per far uscire Previti.
Se si comincia così la lotta all’evasione fiscale, includendo la frode fiscale nell’indulto, non si fanno tanti passi in avanti in questa direzione.




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CORRIERE DELLA SERA
26 luglio 2006
Gerardo D'Ambrosio: «È finita a tarallucci e vino Un'altra occasione persa»
di Marco Imarisio

«Un'altra occasione persa, l'ennesima». Detto senza alcuna rabbia, con voce calma e la consapevolezza di chi da un pezzo ha smesso di farsi illusioni sull'Italia.
Gerardo D'Ambrosio, oggi senatore ds a Roma, ieri procuratore capo a Milano e alter ego di Francesco Saverio Borrelli. Ne è passato di tempo da allora, e secondo l'ex magistrato di Mani Pulite non è che sia stato speso bene: «Nessuna sorpresa. Quando ci sono forti interessi economici in ballo, va sempre a finire così, tarallucci e vino».

Se l'aspettava?
«Diciamo che non mi stupisco. Lo schema di questa vicenda è tipico dell'Italia e dell'illegalità diffusa che abbiamo nelle vene».

Lo riassuma.
«Si comincia con una forte indignazione, seguita da un fiero proclama emanato all'unisono da classe politica e società civile: chi ha sbagliato paghi, dobbiamo ridare credibilità al sistema, eccetera».

Come si finisce?
«Così, con un'altra occasione persa. Quelli che blaterano di rispetto della legalità si accorgono che per ristabilirla davvero dovrebbero anch'essi pagare un prezzo».

A quel punto che succede?
«Si aprono i banchetti, le trattative, le minacce più o meno velate. Gli imprenditori coinvolti prospettano ritorsioni economiche, i politici auspicano il rispetto delle regole ma senza far male a nessuno, ai loro amici soprattutto. E si arriva a un bel compromesso dove si cambia qualcosina per non cambiare nulla».

È andata così anche nel calcio?
«Ci sono dei dubbi? L'unica cosa che sorprende è la velocità di questo ciclo. In un paio di mesi siamo passati dall'indignazione al sospiro di sollievo».

Lei lascia intendere che per Mani Pulite, almeno, ci vollero un paio d'anni.
«È così. All'inizio un grande entusiasmo che poi si attenua, per stemperarsi poi in una malcelata insofferenza che nasconde un timore: non è che questi giudici vogliono fare piazza pulita per davvero?».

Se è così, per il suo amico Francesco Saverio Borrelli si tratta di una seconda volta.
«È stato accolto con una ovazione dagli stessi personaggi sui quali doveva indagare. Personalità di grande spessore e pulizia morale, dissero tutti. Adesso, sembra quasi sopportato. C'era da aspettarselo ».

Secondo lei perché accade questo?
«Francesco Saverio è un uomo davvero particolare per questa Italia. Per me, ha rappresentato un anticorpo all'illegalità diffusa, che, ripeto, è il grande male di questo Paese. È stato chiamato nel mondo del calcio per la sua grande professionalità. Aveva un compito: fare una indagine complessa in tempi rapidissimi. L'ha fatto».

E fino a qui siamo nell'ovvio. Dov'è il problema allora?
«Non si è fermato solo alle intercettazioni, ha continuato a lavorare. Nel tentativo di ripristinare la legalità in un mondo che ne aveva evidentemente bisogno. E dopo un po', tutto questo scoccia, è una seccatura».

Senatore, le diranno che questa è un'intervista giustizialista e giacobina.
«Lasciamo perdere. Sono le due accuse che più sovente cascano sulla testa di Borrelli. L'alternativa che viene proposta dai moralisti all'incontrario è quella di una indistinta palude dove l'impunità può prosperare. Senza accorgersi che è proprio questo atteggiamento a fare di noi un'eccezione nei Paesi civilizzati».

Tre delle quattro città che oggi «tirano sospiri di sollievo» sono rette da suoi colleghi di partito che si sono schierati contro la sentenza di primo grado.
«Ripeto: è sempre così quando ci sono in ballo interessi economici e quindi anche politici. I tifosi della propria città sono un bene da tutelare, da vezzeggiare. E quindi i sindaci hanno preso le loro parti e non quelle della giustizia. Purtroppo, è normale».

Non suona come un complimento agli illustri ds Veltroni, Domenici, Chiamparino...
«Non si sottraggono alla regola italiana».

Che sarebbe?
«Ben venga la legalità, ma a parole. All'atto pratico, sarebbe meglio se non arrivasse proprio a casa mia. Magari un po' più in là, ma non a casa mia, che ho già tanti impicci...».

Adesso il calcio è più credibile?
«Abbiamo vinto i Mondiali. Per il resto, avanti come prima».





INES TABUSSO