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LIBERO
21 luglio 2006
SE MONTANELLI FOSSE VIVO LAVOREREBBE A LIBERO
(FELTRI VITTORIO) - a pag.1

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L'UNITA'
22 luglio 2006
Libero, anzi occupato
di Marco Travaglio

Mentre i giornali normali sprecano spazio per notiziole come la guerra in Libano o lo scandalo Sismi, Littorio Feltri riserva ai lettori del suo giornale, curiosamente denominato “Libero”, uno scoop sensazionale: «Se Montanelli fosse vivo, lavorerebbe a Libero». Questa sì che è una notizia. Anzi, una doppia notizia. 1) Il principe del giornalismo, scomparso cinque anni fa, oggi scriverebbe sul quotidiano diretto da colui che nel ’94 balzò sulla poltrona del Giornale che aveva fondato e diretto per vent’anni e da cui era stato appena cacciato a pedate da Berlusconi perché spiegò - «non voglio ridurmi a trombetta di un editore in fregola di avventure politiche». 2) Sebbene Montanelli sia in Paradiso dal 2001, Feltri è riuscito a comunicare con lui e a strappargli la clamorosa confidenza. Magari con l’ausilio del Sismi e dell’agente Betulla, al secolo Renato Farina, che di Libero è ancora vicedirettore, nei ritagli di tempo fra la terza e la quarta guerra mondiale, anche se usava pubblicare i dossier-bufala dei servizi dai quali incassava un secondo stipendio. Ci sarebbe poi una terza notizia: Feltri ha una faccia di bronzo da competizione. Ma questa non è una notizia: la sanno tutti.
Nel ’74 Montanelli fonda il Giornale Nuovo, ma si guarda bene dall’assumere Feltri. Nel ’94, fra l’uscita dal Giornale e la nascita della Voce, manda articoli alla Stampa, al Corriere e persino all’Unità: mai la sua firma comparirà su un giornale di Feltri (Europeo, Indipendente, Giorno, Borghese, Libero). Che cosa pensa di Feltri, Montanelli lo dichiara al Corriere il 12.4. 95: «Il suo Giornale confesso che non lo guardo nemmeno, per non avere dispiaceri. Mi sento come un padre che ha un figlio drogato e preferisce non vedere. Comunque, non è la formula ad avere successo, è la posizione: Feltri asseconda il peggio della borghesia italiana. Sfido che trova i clienti!». Perché mai, se pensava così da vivo, avrebbe cambiato idea da morto?
Nell’aprile ’93 Berlusconi annuncia a Montanelli che scenderà in campo e pretende il sostegno del Giornale. Montanelli rifiuta. Allora il Cavaliere comincia a trafficare per sostituirlo. Tenta di imporgli Feltri come condirettore, prepensionando Federico Orlando. Montanelli rifiuta. Allora Berlusconi decide di liberarsi anche di lui e si accorda segretamente con Feltri, che in estate lo confida a Massimo Fini e gli chiede di seguirlo. Fini rifiuta. Quel che accade tre mesi dopo, nel gennaio ’94, lo racconta per l’ennesima volta Montanelli nel marzo 2001 al Raggio Verde di Michele Santoro. Feltri gli ha appena dato del voltagabbana. Il vecchio Indro, già malato, telefona in diretta per sbugiardarlo: «Voglio ringraziare Travaglio, il quale ha detto l’assoluta e pura verità. Debbo manifestare una certa sorpresa per quel che ha detto Feltri, il quale sa come andarono le cose. Dice che la mia condotta verso Berlusconi è stata ambigua. Gli rispondo che io ho conosciuto due Berlusconi: il Berlusconi imprenditore privato che comprò il Giornale, e noi fummo felici di venderglielo su questo patto: “Tu, Berlusconi, sei il proprietario del Giornale; io, direttore, sono il padrone del Giornale, la linea politica dipende solo da me”. Questo fu il patto fra noi due. Quando Berlusconi mi annunziò che si buttava in politica, cercai di dissuaderlo. Ma tutto fu inutile. Mi disse: “Da oggi il Giornale deve fare la politica della mia politica”.Gli dissi: “Non ci pensare nemmeno”. Allora lui, nella maniera più volgare e più scorretta, riunì la redazione a mia totale insaputa, come ha raccontato Travaglio, e disse: “D’ora in poi il Giornale farà la politica della mia politica”. A quel punto me ne andai. Cosa dovevo fare? Se questo sembra a Feltri un modo di procedere democratico e civile, è affar suo. Io lo trovo di una volgarità e di una prepotenza … una segnalazione di certe tendenze che animano il Berlusconi politico che mi sgomentano». Sul momento Feltri balbetta alcuni monosillabi, poi l’indomani gli spara addosso su Libero, con titoli del tipo: «Santoro getta in campo anche Montanelli», «Santoro arruola pure Montanelli», «La commedia di Montanelli. Il giornalista e il Cavaliere: ecco chi davvero ha voltato gabbana». Insomma Feltri, noto voltagabbana, tratta Montanelli da vecchio rimbambito e spiega di non avergli replicato in tv perché «non è elegante polemizzare con un anziano». Oggi, confidando nell’amnesia generale, racconta che Montanelli scriverebbe su Libero. Come no: pur di affidare i suoi pezzi al vaglio di Betulla, sarebbe capace di resuscitare.




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LIBERO
22 luglio 2006
Montanelli, il vero capo della destra che non c'è
di MARCELLO VENEZIANI

Saremo in tanti oggi sulla scia di Vittorio Feltri a ricordare Indro Montanelli: giusto cinque anni fa il regno della stampa italiana perdeva il suo Re scontroso. Ci lasciò una repubblica di principi e principianti ma più nessun sovrano. Se ne andò via in punta di penna, forse col rito abbreviato, come ricordava ieri Feltri, detto eutanasia, ma non sta bene dirlo. Poche settimane prima aveva difeso l'eutanasia ed io dalle colonne del "suo" Giornale gli avevo risposto. Ma lui poi replicò con i fatti e mise a tacere tutti. Era rimasto Re perché i suoi grandi compagni d'arma e di penna erano già andati: i Malaparte e i Longanesi, i Missiroli e i Guareschi. Un ribelle autarchico Montanelli era rimasto tra i viventi come un conto in sospeso della storia del giornalismo o del giornalismo storico, forse preistorico, ante-computer, pre-internet. Si sentiva scomodo sul trono, anche se non gli mancava la vanità e la civetteria. Da principe solista ed egocentrico Montanelli aveva una plateale inattitudine a regnare; eppure in età da pensione per i mortali, si inventò e poi diresse per un ventennio il Giornale. Per finire, dopo la disavventura de la Voce, alla Casa Madre, il Corriere, che lo aveva gambizzato nell anima quando le br lo gambizzarono, riuscendo a centrare l esile obiettivo dei suoi ramilunghi e secchi dalocomozione. Non so se oggi sarebbe tra noi a Libero, come scriveva ieri Feltri, ma vi sono due seri indizi a favore di questa tesi: era il principe dei moderati ma aveva un anima di ribelle autarchico, ed era di destra ma criticava la destra. continua...




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LA REPUBBLICA
28 marzo 2001
Montanelli, sfida in diretta tv
"E' la destra del manganello"
Il giornalista al "Raggio Verde" di Santoro: "Era Mussolini a non amare la satira"
ALESSANDRA LONGO

Roma - Eccolo Michele Santoro, il conduttore che innervosisce la destra con il suo «Raggio Verde», detto Raggio Rosso dagli anticomunisti. Orrore, guardate chi c'è fra gli ospiti invitati a parlare del rapporto fra satira e politica. C'è Marco Travaglio, il giornalista che ha incendiato l'animo del Cavaliere. Adolfo Urso, di An, prima ancora di vedere quel che succederà definisce la puntata «un atto di guerra». La presenza di Indro Montanelli, di cui va in onda un'intervista concessa ad Alain Elkann e già trasmessa su Telemontecarlo, è il cuore della serata. Davanti alla sua inseparabile macchina per scrivere, il decano dei giornalisti vibra di indignazione nel giudicare la destra alla Cesare Previti del «non faremo prigionieri» o, ancora, più recentemente, del «faremo piazza pulita in Rai», alla Gianfranco Fini: «Frasi del genere - dice Montanelli - mi evocano ricordi poco simpatici. Il fascismo era così. Era Mussolini a non amare la satira. Chi ispira al signor Fini questo linguaggio del peggior squadrismo? Questa non è la destra, è il manganello...».
Indro, il guerrigliero controcorrente. Per il Polo, il peggior nemico. Vittorio Feltri, definito dai suoi estimatori politici «l'agnello sacrificale» della puntata, per la verità morde come un lupo: «Mi chiedo a quale Montanelli dobbiamo credere. Al direttore de «Il Giornale» che, per vent'anni, ha avuto Berlusconi come editore, e ne parlava bene, o al Montanelli che descrive il leader di Forza Italia come un fascista? Chiedo a Indro: perché, se la pensavi così, hai convissuto con un teorico del manganello?».
Ecco Travaglio, calmissimo. Parla del suo maestro di giornalismo, Indro, appunto. Ricorda come il grande giornalista «fu cacciato a pedate dal suo giornale». Suona il telefono. E' lui, Montanelli in diretta: «Ringrazio Travaglio per aver detto la verità su come andarono le cose. Vorrei dire a Feltri che in me non c'è ambiguità. Non è colpa mia se ho conosciuto due Berlusconi. Il Berlusconi imprenditore privato, che comprò «Il Giornale», lasciandomi carta bianca sulla linea politica, e il Berlusconi pronto ad entrare in politica contro il volere di Letta e Confalonieri. Come capo politico, in quei brutti giorni, si comportò scorrettamente, radunando la redazione del «Giornale» e annunciando che, da quel momento, si cambiava tutto. Se questo è un modo democratico... Io lo trovo di una volgarità, di una prepotenza, che mi lasciano sgomenti».
Di questo si parla: delle pedate, della censura, dei politici che non stanno al gioco. Ci sono Dario Fo e Franca Rame, i censurati Rai per eccellenza. Sedici anni di embargo televisivo. Ma non solo. Franca Rame racconta la violenza subita negli Anni Settanta, «castigo» crudele alla coppia Fo, impegnata nella battaglia politica. Confinato in un altro studio, c'è Gianfranco Funari. Anche lui si sente vittima della censura. E persino Sabina Guzzanti, reduce dalla splendida caricatura di Berlusconi all'Ottavo Nano, denuncia una sforbiciata subita «dall'amico Enrico Mentana», direttore del Tg 5: «Avevo accettato di fare un'intervista sulla satira purché mi lasciassero esprimere solidarietà a Luttazzi e al suo Satyricon. Ma mi hanno tagliato proprio quella parte di dialogo». Arriva la nota di Mentana: «Non l'abbiamo censurata». La Guzzanti controreplica: «Io c'ero, non è andata così».
No, non si dovrebbe parlare ancora del libro di Travaglio, pietra dello scandalo. Ma è il giornalista Pierluigi Battista a riaprire la questione. Berlusconi a Palermo non è un indagato ma un testimone, dice Battista, che quasi si sostituisce a Feltri. Alle undici della sera, si torna a evocare lo stalliere di Arcore. Feltri assicura che Mangano non era conosciuto come mafioso quando andò a lavorare per il Cavaliere. Figuriamoci. Miriam Mafai s'indigna, la fedina penale era già sporca, eccome. I vignettisti Vincino e Vauro ascoltano e disegnano. Dalla satira alla cronaca. Ci risiamo, ma questa volta Berlusconi non telefona in diretta. Il Nobel Fo, uno che se ne intende di dialoghi, loda l'ormai famosa conversazione telefonica tra Dell'Utri e Mangano: «Una vera piece di teatro. Se dovessi scrivere il dialogo fra un mafioso e un potente sottomesso lo farei così».



INES TABUSSO