00 09/02/2006 22:27


CORRIERE DELLA SERA
9 febbraio 2006
IL CASO LUCCA
di GIAN ANTONIO STELLA
L’ateneo sotto casa e la guerra di Pera

Battaglia a Lucca per la conquista della cittadella della scienza: da una parte Marcello Pera, dall’altra un po’ tutte le istituzioni locali, trainate dal sindaco di destra e il presidente provinciale diessino, decisi a impedire che l’Imt «diventi il giocattolo del presidente del Senato».


La Fondazione Lucchese si rivolge alla magistratura amministrativa e la Provincia revoca il contributo: «Il nuovo statuto ci taglia fuori»
L’ateneo di Alti Studi sotto casa e la guerra dei sette anni di Pera
Lucca, finisce al Tar lo scontro sulla nuova cittadella universitaria
Meno male che scorre inchiostro e non sangue, ma dicono a Lucca che non si vedeva una guerra così dai tempi di Tarlatino de’ Tarlati. Obiettivo, la presa della cittadella della scienza: l’Imt. Da una parte c’è Marcello Pera, che sbertuccia i nemici dicendo che sono invidiosi, e che la nuova scuola di Alti Studi «ha più successo della Normale e del collegio Sant’Anna». Dall’altra ci sono un po’ tutte le istituzioni locali, trainate da una strana coppia: il sindaco di destra e il presidente provinciale diessino, decisi a impedire che l’Imt, per usare le parole dell’Ulivo, «diventi il giocattolo di Pera». Sono mesi che va avanti, il tormentone. Che si è innestato sulla «guerra dei sette anni» tra il presidente del Senato e il primo cittadino, Pietro Fazzi. Sono troppi, due galli azzurri per il pollaio berlusconiano lucchese. E il rapporto, come è noto, è finito col lancio degli stracci. Di qua la seconda carica dello Stato che rivendicava il diritto ad occuparsi anche di Lucca, di là la prima carica della città che rifiutava interferenze e accusava il compagno di partito di voler mettere il naso su tutto. Finché il senatore popperiano ha ottenuto l’espulsione del reprobo da Forza Italia e quell’altro è sceso in piazza col megafono per accusare l’avversario di pressioni clientelari.
Eccolo, il contesto dello scontro sulla nuova cittadella universitaria, sfociato in un clamoroso ricorso al Tar. Per capirci qualcosa, occorre fare qualche passo indietro. Partendo dalla voglia dei lucchesi di avere anche loro, come tante altre città, una struttura universitaria. Siamo nel maggio 2003 e il Politecnico di Milano, la Luiss e la scuola superiore Sant’Anna di Pisa (ai quali si aggregherà la Statale pisana) danno vita al consorzio Cisa per fare a Lucca «attività di ricerca e di alta formazione» e promuovere «reti di corsi di studio di secondo livello, ivi compresi corsi e scuole di dottorato basati sulla collaborazione tra Università, istituti scientifici, enti pubblici e privati...». Una cosa mista, un po’ pubblica e un po’ privata, finanziata coi soldi del Consorzio (30%), dell’Università di Pisa (20%) ma soprattutto (50% fino a un massimo di 4,6 milioni di euro l’anno) della Fondazione Lucchese per l’Alta Formazione e la Ricerca (Flafr) composta tra gli altri da Comune, Provincia, Cassa di Risparmio, Camera di Commercio e Associazione industriali.
Deve essere, per i fondatori, un’«università non statale legalmente riconosciuta». Fatto sta che, passin passino, diventa un’altra cosa. Scriverà Gaetano Quagliariello, braccio destro di Pera nella Fondazione Magna Carta e dentro l’Imt, che per «malinteso orgoglio localistico» e «pigrizia dei tanti figli e figlie di mammà che a pranzo e cena apparecchiati e camicie ben stirate non sono disposti a rinunciarvi manco morti» i lucchesi volevano «l’ennesima università sottocasa, magari alimentata dai docenti di un illustre circondario e destinata a vivacchiare trasformandosi in un diplomificio». Ipotesi scongiurata dal magico intervento perista. Dicono i nemici, al contrario, che il progetto giusto era quello originario, attento ai bisogni locali, e che tutto è stato stravolto dalla «grandeur» di Pera. Deciso a farsi un’università di prestigio tutta sua (arrivando a convocare i protagonisti al Senato) a dispetto del buon senso, dato che a venti chilometri ci sono già l’Università, la Normale e il Sant’Anna di Pisa. Cioè due delle quattro scuole superiori (le altre sono la Sissa di Trieste e l’Iuss di Pavia) esistenti in Italia.
Non piace molto, a questi istituti, l’irruzione dell’Imt. E non solo perché, come scrive Dante, giocando forse sul significato, «i pisan veder Lucca non ponno». L’entrata nel club delle alte scuole, dicono, è una cosa seria. L’Iuss pavese ha dovuto attendere nove anni di anticamera, prove e verifiche, il Sant’Anna, figliato dalla Normale, addirittura più di 30: perché la scuola raccomandata da Pera dovrebbe avere una corsia preferenziale? Di qui una certa diffidenza, manifestata anche attraverso documenti ricchi di dubbi e di distinguo. Mentre la Normale, perplessa, assiste da lontano ben decisa a non farsi trascinare in una rissa da cortile.
Fatto sta che a un certo punto Letizia Moratti taglia corto. E non solo istituisce la Scuola Imt (che va addirittura a presentare a Parigi) nonostante il parere contrario del Comitato nazionale di valutazione, secondo il quale la nuova struttura universitaria (statale, al contrario di quanto doveva essere) «presenta alcune anomalie» e non offre chiarezza «sul nodo del rilascio del titolo di dottore» e sul «reclutamento del personale docente». Ma allega al decreto che partorisce l’Imt uno statuto che, secondo i lucchesi che avevano lanciato il progetto originario, non è mai stato deliberato da loro e anzi li taglia fuori del tutto dalla gestione.
Risultato: una rivolta. Sfociata nel voto con cui la Fondazione Lucchese per l’Alta Formazione e la Ricerca, spingendo alle dimissioni i vertici peristi, decide di rivolgersi al Tar lamentando di essere stata emarginata e prefigurando addirittura una richiesta di danni per «interruzione del rapporto contrattuale». Una scelta clamorosa. Accompagnata dalla decisione del presidente provincia Andrea Tagliasacchi di revocare il suo contributo: «Lucca dà 4,6 milioni l’anno contro 1,5 del governo: perché dovremmo essere relegati a un ruolo marginale?». E seguita da polemiche sui giornali locali sempre più incandescenti.
Come andrà a finire non si sa. Ma certo non ha contribuito a tagliare l’aria la lettera pubblica della Fondazione Banca del Monte. Che con toni bruschi spiega che sì, ovvio, «l’Alta Scuola Imt è una buona iniziativa» e «si deve ringraziare l’intelligenza e la lungimiranza di tutti coloro che l’hanno ideata». Ma che il nuovo statuto «rappresenta sia un’offesa all’intelligenza» dei promotori «sia una lesione agli interessi» della comunità locale. E dunque guai a chi, accontentandosi di qualche promessa, decidesse di lasciar cadere il ricorso al Tar: si farà sempre in tempo a lasciarlo cadere. Ma dopo. Come andrà a finire non si sa. Visti gli insulti, però, non sarà davvero facile arrivare a una tregua.

Gian Antonio Stella
INES TABUSSO