00 24/01/2006 13:30
IL MESSAGGERO
23 gennaio 2006
UNA PROROGA MA SOLO PER VARARE LEGGI SERIE
di CARLO FUSI

Saranno i cittadini italiani tra poche settimane a dare il giudizio sui cinque anni di governo della Casa delle Libertà e di Silvio Berlusconi premier, sulle capacità dell’Unione di essere coesa e sulle possibilità di Romano Prodi di diventare il successore del Cavaliere a palazzo Chigi. Ma indipendentemente dalla valutazione sovrana degli elettori, una cosa su tutte va evidenziata: qualunque possa essere il giudizio, la legislatura che è agli sgoccioli - e che in ogni caso porterà all’apertura delle urne il 9 aprile perché nessuno chiede slittamenti di questo termine - non può e non deve chiudersi con un braccio di ferro istituzionale tra il capo del governo e il presidente della Repubblica. La data del 29 gennaio come ultimo giorno di lavoro delle Camere non ha carattere di perentorietà: si può discutere sull’opportunità che rimanga o che venga fatta slittare di qualche giorno. L’importante è che non si verifichino strappi tra il premier e il capo dello Stato cui, va ricordato, spetta, Costituzione alla mano, la decisione finale. La campagna elettorale, di fatto già iniziata, ha finora messo in campo un repertorio di veleni tra i due schieramenti che si è alimentato di accuse e controaccuse, di polemiche al calor bianco agitate con toni che contrastano su tutta la linea gli appelli ad un civile confronto sui problemi concreti dell’Italia che proprio Carlo Azeglio Ciampi ha in più occasioni, e recentemente, rivolto sia al centro-destra che all’opposizione.
Dunque sia che il 29 gennaio resti come data ultima sia che si stabilisca un proroga di una settimana o poco più l’importante è che si tratti di una scelta frutto di un’intesa; senza forzature o, peggio, scontri di cui nessuno avverte il bisogno. Il colloquio di ieri al Colle tra Berlusconi e Ciampi, con il Cavaliere intenzionato a chiedere di procrastinare la fine della legislatura, è stato interlocutorio e non ha portato ad una decisione concordata. Ma i tempi sono strettissimi e dilazioni non sono possibili, nè risulterebbero comprensibili.
Il secondo elemento è di merito. Se posticipare l’addio di Camera e Senato ha l’unico - o peculiare - scopo di consentire un numero indeterminato di comizi mediatici, di qualunque genere siano e da chiunque svolti, allora non servono. Se al contrario possono risultare utili per condurre in porto provvedimenti di spessore, il discorso cambia. In questo senso il pensiero va alla legge sull ’inappellabilità varata dalla maggioranza e rinviata dal Quirinale al Parlamento. I rilievi del presidente del Repubblica possono costituire un utile banco di prova per consentire una riscrittura puntuale che deve essere fatta in tempi brevi ma non può assumere il sapore di una ripicca. Il principio di libertà non è stato messo in discussione e viene riconosciuto valido anche da autorevoli esponenti dell’Unione; e perciò - ovviamente per chi ha volontà di esplorarli - esistono i margini per un riesame che rappresenti uno scatto in avanti di saggezza. Un modo per suggellare, almeno in questo caso, in maniera non parossisticamente conflittuale cinque anni di attività parlamentare. Forse è un’occasione, l’ultima, che può essere colta. Ma senza risse e senza anatemi, visto che in giro ce ne sono già tanti. Magari troppi.


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CORRIERE DELLA SERA
22 gennaio 2006
Siniscalchi (Ds): la Cdl ha esagerato Ma il principio della norma è giusto
L' INTERVISTA
INSUFFICIENZA DI PROVE Hanno voluto rendere inappellabili anche le assoluzioni ottenute con la vecchia insufficienza di prove CASSAZIONE SNATURATA Cassazione snaturata perché si istituisce un terzo grado di merito che può portare a un quarto grado

ROMA - Vincenzo Siniscalchi, deputato dei Ds e presidente della giunta per le autorizzazioni della Camera, è un avvocato molto noto che conosce bene le aule di tribunale. E per questo sottoscrive in pieno «quel principio generico di civiltà giuridica secondo il quale la pubblica accusa non deve accanirsi in presenza di un' assoluzione piena di primo grado, un' assoluzione ottenuta "al di là di ogni ragionevole dubbio"». Noi, insiste Siniscalchi che è membro della commissione Giustizia della Camera, «avevamo avvertito il centrodestra ma loro hanno esagerato: hanno voluto rendere inappellabili a tutti i costi anche le assoluzioni non piene, quelle ottenute con la vecchia insufficienza di prove e per intervenuta prescrizione grazie alla concessione delle attenuanti generiche». Presidente, dunque, se la legge Pecorella avesse limitato l' inappellabilità alle sole sentenze di assoluzione piena di primo grado, lei l' avrebbe votata? «Vincenzo Siniscalchi non avrebbe avuto obiezioni. Perché questo quel principio rispecchierebbe non solo le decisioni della Corte europea ma anche prese di posizione assunte in passato dalla magistratura associata. E' un principio generale, questo, che non indebolisce l' azione penale obbligatoria, che non crea disparità di trattamento tra difesa e accusa». Invece, se l' assoluzione di primo grado non è piena è legittimo parlare di inappellabilità? «E qui iniziano i problemi. Nel nostro sistema solo apparentemente è stata tolta la formula "assoluzione per insufficienza di prove" perché tutto questo persiste nel secondo comma dell' articolo 530: quindi, quando l' assoluzione non è piena e ci sono elementi di dubbio, c' è la possibilità che l' azione penale che è stata portata fino a quel punto produca un ribaltamento della decisione. Per cui, rendendo inappellabili anche queste sentenze, noi violeremmo il principio di parità tra accusa e difesa che abbiamo sancito con la riforma dell' articolo 111 della Costituzione». Quindi il rinvio del capo dello Stato era ampiamente prevedibile con questo testo? «Certo, la legge Pecorella è palesemente incostituzionale perché unifica l' assoluzione piena all' assoluzione che ricorre alla vecchia insufficienza di prove e a quella per intervenuta prescrizione a seguito della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Perché il pm non potrebbe appellare per chiedere in un altro grado di giudizio se quelle attenuanti generiche sono applicabili oppure no?». Il presidente della Repubblica ha osservato anche che l' allargamento dei motivi di ricorribilità avrebbe finito per snaturare il giudizio di legittimità, producendo «un insostenibile aggravio di lavoro» per la Corte di Cassazione. «Certo, la Cassazione verrebbe snaturata. Perché si istituisce un terzo grado di merito che poi può dare vita a un quarto grado perché con il rinvio si torna indietro. E questa sarebbe una completa modifica addirittura del nuovo codice». Perché la Cdl non si è limitata a considerare le sole sentenze di assoluzione piena per introdurre il principio dell' inappellabilità? «Perché sarebbe venuta meno tutta la materia del contendere. Che poi riguarda certe assoluzioni per insufficienza di prove e per prescrizione».
Dino Martirano


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CORRIERE DELLA SERA
23 gennaio, 2006
Fanfani: giusto il principio del testo Pecorella
DALLA MARGHERITA
APPELLO Se ci fosse un giudice collegiale in primo grado, eliminerei l' appello

ROMA - «La legge Pecorella è come la coda del maiale: gira e gira torni sempre lì, ai processi di Milano». Giuseppe Fanfani, avvocato di Arezzo e responsabile Giustizia della Margherita, è convinto che la Cdl riproporrà con qualche aggiustamento di facciata il testo sull' inappellabilità delle sentenze di proscioglimento di primo grado appena bocciato dal capo dello Stato. E così, anche davanti alle proposte avanzate dal presidente Gaetano Pecorella (FI), Fanfani non si fa illusioni: «Siamo sempre lì. A Milano c' è un' assoluzione impugnata dal pm che loro vogliono stroncare prima». Ma, al di là dei processi eccellenti, non trova che sia giusto chiudere una vicenda giudiziaria dopo una prima assoluzione? «Il principio è giusto. Se ci fosse un giudice collegiale in tutti i processi di primo grado, io sarei per eliminare l' appello. Oggi, invece, questo primo grado si presta moltissimo agli errori perché già una persona sola che decide per le pene fino a 10 anni non mi sta bene». E se ci fosse un collegio anche per i reati oggi affidati al giudice monocratico? «A queste condizioni io posso rinunciare all' appello. Con un processo tempestivo, in cui il giudice ha preso direttamente e nell' immediatezza visione di tutte le prove, io posso dire: "Che mi sia andata bene o che mi sia andata male, è il giudizio di un giudice corretto». Perché si va sempre in appello? «Oggi nel primo grado monocratico, i pm spesso sono non togati. Ecco, se sono fortunato ho un giudice togato ma se non lo sono mi ritrovo un giudice onorario. Ma perché abbiamo tante riforme in corte d' Appello? Per questo motivo. Mica perché in secondo grado ci siano giudici più cattivi». Dunque l' appello può anche essere riformato ma prima serve un nuovo processo di primo grado. «Sarei d' accordo se ci fosse una riforma di sistema che rendesse il primo grado serio e tempestivo. Ma questo presuppone che al primo grado ci arrivino solo pochi processi. Ci vuole uno sbarramento serio a monte, bisogna rendere veramente interessante il patteggiamento». A quel punto anche in primo grado si torna al collegio giudicante per tutti i processi? «Basta anche un collegio fatto di privati cittadini. Anche il presidente Pecorella (FI, ndr) sarebbe favorevole a una giuria popolare in primo grado. Ma ci sono due grossi ostacoli: l' organizzazione giudiziaria e l' avvocatura. Gli avvocati sono 160 mila: togli loro un grado di giudizio, togli loro un terzo del lavoro». Ma allora perché i penalisti fanno il tifo per la legge Pecorella? «Vogliamo scommettere che se la sentenza di primo grado diventasse inappellabile anche per la difesa, gli avvocati non sarebbero d' accordo?».
Dino Martirano


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IL GIORNALE
23 gennaio 2006
Ipocrisia della parità
Vittorio Sgarbi

Questa storia del principio di parità tra accusa e difesa stabilita nell'articolo 111 della Costituzione è totalmente fuori dalla realtà: chiunque abbia avuto esperienza di tribunali e di processi sa che il pubblico ministero non cerca la verità e non fa alcuna concessione al malcapitato imputato che, se innocente, si trova improvvisamente al centro della morbosa attenzione, se è noto, dei media o, nella condizione di doversi difendere, tra mille difficoltà, se è sconosciuto.

La sua vita cambia. Il suo onore e il suo decoro sono messi in discussione.
E sempre prevale il dubbio che, se inquisito, abbia fatto qualcosa. Da questo atteggiamento colpevolistico dell'accusa sono derivati negli anni passati suicidi e dissesti psicologici che hanno investito non soltanto le vittime ma anche i loro parenti, creando talvolta disagi insopportabili.

Ricordo che nel caso del dottor Caneschi il pubblico ministero chiese l'arresto mentre l'indagato era in rianimazione. Non si contano i casi di persone che hanno patito oltre che l'ingiusta accusa anche l'ingiusta detenzione per essere poi dopo molti anni completamente scagionati attraverso tutti i gradi del giudizio.
Il pubblico ministero è tranquillo, non paga, tanto meno se sbaglia, e difende il principio dell'accusa in nome della società che lo delega; l'accusato è coinvolto direttamente, patisce la realtà dell'accusa, si deve difendere e può rischiare tutto.
Può perfino pagare anche se innocente.
Il pubblico ministero che sbaglia non paga mai: per lui ci pensa lo Stato. Molto comodo questo principio di parità!

Immaginiamo che, come è accaduto, uno sia indagato per un reato infamante, per pedofilia, o per mafia. Dobbiamo lasciarlo nell'incertezza della condanna per un decennio? Per una parte di vita che gli viene rubata e che lo espone al giudizio severo della società, interrompendone i rapporti di fiducia e di lavoro stabiliti nel corso degli anni.
Ricordate il caso di Ferdinando Pinto, sovrintendente del teatro Petruzzelli? Dopo lunghissimi processi è stato definitivamente assolto.

Ma il suo ruolo sociale, quella che si chiama la sua «immagine», è stato completamente devastato. Il tempo per l'assoluzione ha congiurato contro di lui. Inutile ricordare il caso di Enzo Tortora o, con minore devastazione personale, quelli di Tabacci, Agrusti, Gamberale, Merola, Sabani, Boncompagni, tutti mostri per qualche mese e poi con molta lentezza, quasi mai completamente ricondotti alla normalità di relazioni nel lavoro e nella stessa vita quotidiana.

Il giudizio degli uomini più terribile di quello di Dio ancora ci lascia incerti su personaggi come Bruno Contrada e Calogero Mannino.
e l'inquisitore sbaglia, quindi è colpevole, rovina la vita di un uomo, lo sequestra, lo umilia, la sua immagine non è in alcun modo contaminata. Una sorta di immunità, oltre che di impunità, lo accompagna.

Più accusa, più è. Il pubblico ministero lo fa di mestiere, l'indagato non fa di mestiere l'indagato. Quale parità? D'improvviso uno passa dalla propria vita a quella di perseguitato, di infamato; e talvolta, come è capitato ad Andreotti, deve assumere questa condizione come un lavoro, deve calarsi nel ruolo dell'imputato.
Soltanto in questa condizione vi può essere parità.

La quale evidentemente non si può stabilire fra un professionista e un dilettante, fra chi pratica una funzione e chi la patisce, fra chi fa un lavoro per cui è pagato e accusa in nome e per conto della società e chi si trova criminale (questo è lo status di chi è perseguito per un crimine) da un giorno all'altro senza averlo deciso e, come spesso accade, tanto meno praticato.

L'assoluzione definitiva in primo grado sdegnosamente respinta dal presidente della Repubblica non persegue la finalità di fissare o compromettere un'impossibile parità, ma semplicemente di limitare il tempo di sofferenza riducendo il danno del marchio di infame nel rapporto con la società. Ha dunque una funzione altissimamente civile, di risarcimento del danno, di reintegrazione della «immagine» in tempi ragionevoli. Chiunque lo sa.

Ma l'ipocrisia della «parità» muove i benpensanti. Onore dunque a Vincenzo Siniscalchi, deputato dei Ds che, in controtendenza, sostiene l'opportunità della nuova norma che elimina l'appello in favore dell'accusa e sottoscrive «quel principio generico di civiltà giuridica secondo il quale la pubblica accusa non deve accanirsi in presenza di una soluzione piena di primo grado, una soluzione ottenuta “al di là di ogni ragionevole dubbio”».

Nell'appello dell'accusa, che ovviamente ha interesse alla condanna e non alla conferma dell'assoluzione, c'è spesso un accanimento, l'atteggiamento di partito preso di chi deve sostenere una parte, come a teatro.
Ma una cosa è il teatro del tribunale dove il primo attore è il pubblico ministero, una cosa è la vita, dove l'indagato rischia la limitazione della libertà e la perdizione.
Attenti colleghi deputati, attento presidente Ciampi a giocare con la vita degli uomini.


INES TABUSSO