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CORRIERE DELLA SERA
17 gennaio 2006
Processi, danni agli imputati anche se assolti
di VITTORIO GREVI

T ra i molti rilievi critici rivolti in questi giorni contro la legge (ora al vaglio del Quirinale) che ha stravolto, per diversi aspetti, il sistema delle impugnazioni penali, quelli riferiti all’abolizione dell’appello contro le sentenze di proscioglimento hanno soprattutto sottolineato la obiettiva disparità di trattamento che visibilmente ne scaturisce tra la posizione del pubblico ministero e la posizione dell’imputato. Altro discorso sarebbe, ovviamente, qualora l’appello venisse abolito rispetto a ogni tipo di sentenza. Le ragioni di queste disparità sono evidenti. Infatti, mentre l’imputato può sempre proporre appello contro le sentenze di condanna, potendo così tutelare il proprio interesse difensivo di fronte a un giudice di merito di secondo grado, per effetto della nuova legge al pubblico ministero è precluso il simmetrico potere di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, e quindi gli è impedito di tutelare allo stesso modo la propria pretesa accusatoria.
La violazione del principio costituzionale che assicura «condizioni di parità» fra le parti del processo non potrebbe essere più vistosa (senza dire dell’ulteriore paradosso per cui il medesimo pubblico ministero, ormai disarmato dell’appello contro le sentenze di proscioglimento, quelle cioè che maggiormente lo vedono «soccombente», potrà invece continuare ad appellarsi contro le sentenze di condanna, magari al solo scopo di ottenere un aumento di pena). Ma altrettanto evidente appare la lesione del suddetto principio costituzionale anche dal punto di vista della vittima del reato costituitasi parte civile, le cui impugnazioni seguono il solco di quelle del pm, in particolare per quanto riguarda le decisioni sulla responsabilità civile dell’imputato.
Anche sotto un differente profilo, tuttavia, sebbene di solito piuttosto trascurato, la prevista abolizione dell’appello contro le sentenze di proscioglimento solleva gravi riserve di ordine costituzionale. Stavolta, però, dal punto di vista dell’imputato, al quale sarà così precluso di proporre appello, anche quando sia stato prosciolto con una formula tale da recargli un pregiudizio giuridico o morale: ad esempio per difetto di imputabilità, ovvero per estinzione del reato a seguito di amnistia o di prescrizione. È significativo che, in ipotesi del genere, negli ultimi anni di vigenza dell’abrogato codice di procedura penale, la Corte costituzionale sia intervenuta ripetutamente a dichiarare illegittime le disposizioni di quel codice (per contrasto con la garanzia costituzionale del diritto di difesa) là dove impedivano all’imputato di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento pronunciate in base a una delle suddette formule, per lo stesso in vario modo pregiudizievoli. Proprio per ciò, nell’attuale codice era stata sancita, di regola, l’appellabilità di ogni sentenza di proscioglimento dell’imputato, che «lasci adito a ulteriori pretese nei suoi confronti» (salvo quelle emesse nel giudizio abbreviato, peraltro introdotto su richiesta del medesimo imputato).
È utile ricordare, tra le molte, la sentenza della Corte costituzionale n. 72 del 1979, che dichiarò illegittime alcune disposizioni allora vigenti, le quali non consentivano l’appello dell’imputato contro le sentenze di proscioglimento per prescrizione del reato, in conseguenza delle concesse circostanze attenuanti. In una situazione come questa, del resto anche oggi assai frequente (si tratta, per esempio, della medesima situazione che ha visto il premier Berlusconi prosciolto per prescrizione dall’accusa di corruzione, nella sentenza di primo grado relativa all’«affare Sme», tuttora in attesa di appello), la Corte sottolineò che la sentenza dibattimentale di proscioglimento per prescrizione presuppone sempre il «previo accertamento» sulla «sussistenza del fatto» delittuoso e sulla «colpevolezza dell’imputato». E che, pertanto, doveva considerarsi illegittima la suddetta esclusione del diritto dell’imputato di proporre appello. Ma, se ciò è vero, come si può pensare che, oggi, non sarebbe egualmente illegittima la stessa esclusione, in questa e in altre analoghe situazioni?
INES TABUSSO