Io l'ho visto, e vi riporto l'intervento con cui commento il lavoro nel mio forum di appassionati di storia, genealogia, ed araldica:
Gentili signori,
consentitemi poche note sulla puntata di ieri de La baronessa di Carini, opera attesa per alcune implicazioni a noi potenzialmente care (l'analisi del tramonto del latifondismo -visto che di feudalità in senso giuridico non si può certo parlare nel 1860-, il more nobilium della Sicilia borbonica, gli abusi feudali, lo tragica vicenda della baronessa Laura Lanza), che evidentemente ho visto (sciogliendo le mie riserve all'ultimo minuto ), la cui vicenda televisiva si conclude stasera, tra circa due ore.
Una vicenda come quella svolta dalla fiction (ora chiamano così i vecchi romanzi sceneggiati cui eravamo abituati) in questione, se per un verso poteva dar fastidio a chi -come lo scrivente- aveva negli occhi l'ottima interpretazione di Ugo Pagliai e di Adolfo Celi; dall'altro presentava profili interessanti, perché qualcuno l'aveva annunciata come il rilancio del genere misterico-gotico in TV.
Senza entrare nel merito della trama (almeno per ora), tuttavia, devo rilevare che non basta un quadro sfregiato, una buona ricostruzione scenica, e qualche musichetta ammiccante per restituire un'atmosfera cupa, sinistra, ed in un qualche senso gotica, anche perché gli attori sono veramente poco calati nei rispettivi ruoli. Mi riferisco in particolare ad Enrico Lo Verso, interprete del temibile don Mariano, che di questi non rende la fisicità, l'autorevolezza e l'età. Don Mariano, a suo tempo interpretato dal cinquantenne Adolfo Celi, dovrebbe suggerire lo scontro tra il vecchio ed il nuovo, tra l'ultima prepotenza latifondista (per non dire pseudo-feudale) e la pretesa democraticità sabauda.
Più di tutto, evidenzio, l'assoluta mancanza di colore nella recitazione orale sia del Lo Verso che degli altri attori (ad eccezione di Buzzanca, che attore consumato lo è veramente). Le voci degli interpreti sono incapaci di regalarci emozioni, ed hanno sempre lo stesso tono: sono incolori come gli occhi, e le espressioni dei volti, quasi sempre uguali sia dinanzi al momento drammatico che a quello leggero.
In questo contesto, una discreta figura la fa, a mio modesto parere, Luca Argentero, interprete di Luca Corbara (la parte che fu già di Ugo Pagliai), che col suo candore talvolta un po' fuori luogo, rende a sufficienza l'idea di uno che si trova fuori posto, travolto da una vicenda più grande di lui.
Per gli araldisti non dimentico, però, di richiamare l'attenzione sullo stemma semi-parlante dei Vernagallo già signori di Dainosturi: di ? alla doppia testa di gallo al naturale ? movente da una campagna?, il tutto sormontato da una corona baronale.
Peraltro, i Vernagallo sono esistiti veramente, ed il loro stemma, come lo riporta il Di Crollalanza (sono debitore dell'amico Cuccomarino per la segnalazione) è di rosso al leone d'argento (quindi non parlante).
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Un caro saluto,
RobertoC