RIBELLI - Tharengrane

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Kudrak
00lunedì 18 ottobre 2004 13:05
Come per molti dei miei attuali compagni di battaglia, uomini fieri e tenaci, temprati nello spirito e nel corpo, anche per me l’unione all’esercito ribelle e la sottomissione alla causa delle Asce Incrociate avvenne a causa della disperazione, del sangue versato senza pietà, delle infinite barbarie subite da poveri contadini e minatori, delle razzie e degli stupri perpetrati da esseri senz’anima…
Ma io sono stato fortunato rispetto a chi ha visto i propri parenti ed amici uccisi, la propria casa ridotta ad un cumulo di macerie. Costoro soffrono continuamente rievocando ogni giorno, nella loro mente, scene di morte e distruzione che li perseguiteranno finché avranno vita.
Io non ricordo come cominciò la mia avventura…o perlomeno come fui spinto a vagare per giorni tra le Terre Rocciose. Stanco, affamato ed assetato, la vista appannata, sporco, gli abiti incrostati di sangue. Fu in questo miserevole stato che, per grazia degli Dei, proprio quando le mie ginocchia stavano per cedere ed abbattermi a terra, preda degli avvoltoi, giunsi ad un capanno. Caddi rovinosamente a terra poco prima di giungere alla porta. Qualcuno doveva avermi sentito, perché udii la porta spalancarsi, ed una voce rauca borbottare: ”Un altro pezzente!” Subito dopo mi sentii sollevato per la camicia da una mano forte, e mi ritrovai faccia a faccia con un rude nano che mi scrutava con i suoi occhietti. Tentai di biascicare qualche parola, ma ero troppo debole. Per tutta risposta, il nano mi colpì con un potente manrovescio che mi fece sanguinare la bocca e rotolare di nuovo a terra. E poco dopo udii voci confuse, rumori che mi giravano nella testa e mi provocavano un dolore lancinante…credo che sprofondai subito in uno stato di incoscienza.
Quando mi ripresi mi trovai disteso su una branda di paglia, dentro una baracca di legno, spogliato dei miei abiti. Mi misi a sedere sul letto e tentai di guardarmi intorno, ma ero ancora debole. Caddi di nuovo sul letto, in preda a un dolore lancinante alla testa. Qualcuno udì i miei lamenti, perché subito dopo un uomo entrò nella baracca.
“Il pulcino si sta riprendendo!” sogghignò l’uomo, avvicinandosi. Aveva l’aspetto di un rude mandriano: puzzava di pecora, era sporco ed aveva una roncola appesa alla cintura. “Cerca di fare in fretta,” continuò, “perché abbiamo bisogno di braccia che sappiano lavorare!”
Ed era proprio così. Nei giorni successivi ripresi a camminare e a parlare tranquillamente, e scoprii dove ero finito: una zona nord delle Terre Rocciose, brulla e accidentata, e fin dove l’occhio arriva non riuscii a vedere altre abitazioni. La baracca di legno era abitata da uno strano gruppetto: due uomini, più vicini alla bestia che all’uomo nei loro modi, che si occupavano di uno striminzito gregge di pecore rinsecchite; un altro, incredibilmente alto e robusto, con un lungo arco in spalla che non abbandonava mai, che poi scoprii essere un abile cacciatore; un nano, quello che mi aveva schiaffeggiato, sempre infuriato, bisbetico, ubriaco da mane a sera, che dispensava insulti e bestemmie: di sicuro un ottimo deterrente contro eventuali ladri di pecore! Si occupava di montare la guardia al gregge, anche se si addormentava sempre all’ombra di una roccia con la sua ascia stretta in mano. Da ultimo, il più strano del gruppo: un ragazzo, almeno sembrava dal viso, pieno di cicatrici su tutto il corpo, sempre in silenzio, in disparte dal gruppo. Periodicamente spariva dalla zona per uno o due giorni, e tornava lacero e sanguinante. Non osai mai chiedere cosa facesse, vista l’estrema barbarie nei modi di tutti quanti, ma era sicuramente un tipo strano. Era l’unico che non lavorava, ma nessuno lo disturbava.
Nessuno mi aveva mai chiesto da dove venissi, né chi fossi, ma una sera, intorno al fuoco, uno dei due mandriani mi apostrofò così:”Allora giovincello, ci dici da dove vieni?”
Tentai di rispondere, ma balbettai solo parole senza senso. Tentavo di ricordare, ma la mia mente non rievocava niente di niente. Ogni volta che tentavo di ricordare mi venivano solo forti emicranie, per cui rinunciai presto all’impresa di ricordare chi fossi e da dove venissi. Ai miei nuovi compagni sembrò non interessare più di tanto. Avevo un medaglione di ottone appeso al collo con scritto “THARENGRANE”: immaginai fosse il mio nome, e così mi chiamavano tutti, tranne il nano:
“PFUI! Il tuo è un nome orrendo! Ti chiamerò semplicemente T, e tu dovrai rispondermi ugualmente, chiaro?” Ovviamente, non potei controbattere; Guttri, questo era il suo nome, mi avrebbe picchiato ancora se avessi osato contraddirlo.
Nei due mesi successivi lavorai duramente insieme agli uomini che mi avevano salvato. Il lavoro era duro: far spostare il gregge per lunghi tratti alla ricerca di campi d’erba, tagliare la legna per riscaldare le rigide notti, percorrere le pianure alla ricerca di erbe e radici commestibili…una volta fui mandato insieme al ragazzo solitario sulla cima di una collina, per montare la guardia. Guttri mi
aveva spiegato, con un’insolita loquacità, che aveva avvistato degli orchi gironzolare a un’ora di cammino dal nostro capanno. Arrivati sulla collina, il ragazzo si accovacciò tra l’erba, silenzioso.
Non disse una parola, ovviamente, né io osai rivolgergli la mia.
Credo che mi fossi appisolato da diversi minuti, quando udii, sommesso, il ruggito di una bestia che a me parve un lupo. Mi svegliai di soprassalto, sfoderai il pugnale che il cacciatore mi aveva fornito e mi guardai intorno impaurito. Con estrema sorpresa capii che il ruggito proveniva dalla bocca del mio compagno. Fu la prima volta che vidi una cosa del genere, e rimasi a bocca aperta: rantolava, si contorceva convulso, urlava in maniera agghiacciante. Lunghi peli spuntarono su tutto il suo corpo che si gonfiò, si inarcò; artigli affilati spuntarono sulle sue dita, una coda uscì con forza da sotto la
casacca che si lacerava a causa dell’eccessivo gonfiarsi del suo corpo. Si era trasformato in un misto tra uomo e lupo, ed era estremamente minaccioso. Puntava dritto dinanzi a sé: con un gesto fulmineo estrasse la sua spada e l’ascia, ed un momento dopo correva ululando e sbavando. Aguzzando gli occhi, vidi nel buio una figura umanoide, ma molto più grande, estrarre una pesante spada ricurva e caricare a sua volta l’avversario. Lo scontro durò poco, perché dopo neanche un minuto l’uomo-lupo aveva affondato la spada nel petto dell’orco e piantatogli l’ascia in mezzo alla testa. Durante tutto quel tempo io ero rimasto immobile, impietrito dalla paura e dallo stupore, con il pugnale stretto nella mano, guardando la lotta tra i due. Ucciso l’orco, l’uomo-lupo emise un forte ululato e tornò a sedersi, guardingo, vicino a me. Rimasi sveglio tutta la notte, fino all’alba, quando l’uomo-lupo, tornato nelle sembianze umane, mi fece segno di seguirlo giù alla baracca.
Dopo quell’episodio l’uomo chiamato Denor, il cacciatore, suggerì che fosse opportuno addestrarmi almeno un po’ a brandire un’arma. Guttri mi diede una vecchia daga d’acciaio, dicendomi: “Con questa ho sgozzato almeno cento orchi…ora è il tuo turno!” Forse cominciavo a piacergli.
Fu un periodo duro: oltre al lavoro dovevo anche passare numerose ore ad allenarmi a combattere. Denor e Guttri mi aiutarono, insegnandomi alcuni dei loro trucchetti, pestandomi con le loro clave di legno in allenamento, temprando il mio spirito e il mio corpo. Tutto sommato credo che quello sia stato il periodo più felice della mia vita: i miei compagni ormai mi consideravano uno di loro, mi insegnavano a lavorare e a combattere, e la sera intorno al fuoco mi facevano fumare dalle loro pipe e mi raccontavano le storie delle loro battaglie, di come erano sfuggiti alla morte in mille e mille occasioni, e di come, un giorno, si erano incontrati, unici superstiti di un massacro da parte dei soldati di Argentea, che appresi essere degli invasori spietati giunti da lontano, e di come avevano superato le loro diversità ed avevano unito le loro forze per sopravvivere – da quanto capii, era raro che un nano, un uomo-lupo e degli umani formassero una combriccola affiatata. Capii che questa era la chiave della sopravvivenza: unirsi, rimanere insieme, superare le avversità superficiali derivanti da religioni e razze diverse. Denor mi raccontò di come il suo villaggio fosse stato distrutto da bande di orchi sanguinari, di come questa sua storia fosse tristemente uguale a tante altre…Grerplick, uno dei due mandriani, mi spiegò dell’esistenza degli Elfi e del modo in cui essi rendevano schiavi gli umani, disprezzandoli e ritenendoli inferiori…
Una sera Guttri, dopo il decimo boccale di birra, si avvicinò a me e mi raccontò di Elea, di Wermat, di come molti uomini liberi di Elea si erano riuniti e combattevano contro gli eserciti invasori, e dei suoi fratelli nani, alcuni corrotti dal potere del Caos, altri rinchiusi nelle loro fortezze scavate nelle roccia. Io gli chiesi: “Guttri, come mai tu e gli altri non vi siete uniti all’esercito ribelle?”
“Sai T”, cominciò lui, “è una scelta difficile…qui abbiamo da mangiare e da bere, anche se non scoppiamo di salute, una casa che ci ripara dal freddo, anche se è fatiscente, combattiamo scaramucce con gli orchi e i ladri che con regolarità tentano di sottrarci il gregge…se fossimo insieme ai soldati ribelli dovremmo combattere ogni giorno, lottare tra noi per dividerci le scarse razioni, ammalarci tra le fila di guerrieri e infine morire tra le sofferenze più atroci. Sinceramente, stiamo meglio qui. Siamo affiatati e ci copriamo le spalle l’un l’altro, cosa che difficilmente succede in un esercito. Siamo un gruppo di AMICI, capisci?”
Non aveva tutti i torti. Già, il bisbetico Guttri teneva alla sua pellaccia, ma anche a quella dei suoi compagni, e tutto sommato mi trovavo d’accordo con lui. Un piccolo gruppo ha buone probabilità di sopravvivere: facile spostarsi, facile mettere d’accordo cinque teste invece di un reggimento. Ma dentro di me nasceva un’irresistibile curiosità di conoscere questi guerrieri ribelli, che avevo solo immaginato fino a quel momento, che scacciavano orde di pelleverdi e uomini malvagi in nome delle loro terre. Un po’ come facevano Guttri e i suoi compagni, certo, ma in scala maggiore, e forse con più coraggio. Non sapevo ancora che, da lì a poco, anche io avrei vestito le insegne ribelli.
Qualche sera più tardi, Denor tornò al campo con un largo sorriso stampato in faccia. Ansante, scaraventò a terra un grosso cinghiale che aveva catturato da poco.
“Stasera si festeggia!” disse ad alta voce, e scoppiò in una grassa risata. Pochi minuti dopo comparve Guttri, trascinando un carretto malandato con sopra un barile di birra, bestemmiando come non avevo mai sentito prima, ma felice. “Gente, ho fatto un ottimo, stramaledetto affare! Un barile di birra e questo carretto al prezzo di…beh, di un mercante nomade un po’ troppo antipatico che ha osato darmi del vecchio lurido!”
Tutti scoppiarono in una grossa risata, anch’io lo feci: in effetti Guttri era un vecchio lurido, ma non si poteva dirglielo. Aveva ucciso quel mercante come niente fosse, era un bruto, ma cominciavo ad affezionarmi a lui.
Quella sera festeggiammo, eccome. La birra scorreva a fiumi, il fuoco divampava alto, la carne era ottima e le risa si levavano alte. Immersi com’eravamo in quest’atmosfera di gioia, cosa assai rara, non ci accorgemmo che avevamo attirato un gruppo di orchi. Cinque di quegli esseri, divorati dalla fame e dalla malattia, ma sempre temibili combattenti, erano stati attirati dal forte odore di carne arrostita e dalle nostre voci tutt’altro che sommesse. Tutto si scatenò in un secondo: avemmo appena il tempo di udire Grerplick che gridava “ORCHI!!” che subito questi ci furono addosso, le armi in pugno, le fauci aperte e sbavanti. Per mia fortuna nessun orco si curò di me: erano cinque contro cinque. Uno degli orchi schiantò la sua mazza di legno sulla faccia di Guttri, che indietreggiò schizzando sangue dalla bocca. Sputò a terra, un misto di sangue e qualche dente sbriciolato, ed io ebbi paura per lui. Un momento dopo, con un’agilità incredibile per un nano, afferrò la sua ascia e menò un fendente alle gambe dell’orco, troncandole di netto. L’orco cadde a terra e Guttri si affrettò a tagliargli anche la mano che teneva l’arma, lasciando il pelleverde in una terribile agonia. Denor non ebbe alcun problema a trapassare un altro orco con un micidiale tiro d’arco. Erano rimasti in tre. Dall’altra parte, Grerplick e Friras, l’altro mandriano, avevano seri problemi a contenere gli orchi, superiori a loro nel combattimento. Friras cadde trafitto alle spalle da una pugnalata sferrata da un piccolo essere verde, mentre Grerplick scomparì poco dopo, scappando a gambe levate verso una grande roccia. Ora c’erano tre orchi e sei piccoli esseri verdi che schiamazzavano e correvano dappertutto, menando colpi con le loro piccole armi. “Maledetti Goblin!” urlò Guttri spaccando la testa ad uno di loro, che schizzò sangue nerastro sui miei vestiti. L’uomo-lupo era scomparso alla vista, ma sentivo i suoi ululati agghiaccianti poco lontano, ed un cozzo di armi. Stava combattendo ma non riuscivo a vederlo. Era buoi pesto e lui era lontano dal fuoco.
Guttri e Denor si lanciarono sul gruppetto di Goblin con foga, combattendo aspramente.
Uno degli orchi si catapultò alle spalle di Guttri, pronto a trafiggerlo a morte. Fu in quel momento che, mosso da un’inesplicabile foga, sfoderai la daga che Guttri mi aveva dato e mi precipitai contro l’orco. Con furia cieca conficcai tutta la lama dell’arma nella schiena dell’orco, che in preda al dolore abbandonò l’arma e urlando cadde a terra. La daga si spezzò e io rimasi disarmato, tra i miei compagni, circondati ormai da una decina di Goblin. Denor sanguinava vistosamente da un braccio e reggeva a malapena la sua ascia; Guttri era palesemente stordito dai fumi dell’alcool. La situazione era disperata.
Con un gesto fulmineo Guttri caricò uno dei Goblin con una potente spallata, mandandolo a rotolare tra la polvere. “ORA! ORA!” gridò, “SCAPPA! SCAPPA!!” e così dicendo mi diede una forte spinta, allontanandomi dal gruppo. Io cominciai a correre, correvo a perdifiato senza una meta, mentre sentivo Guttri urlare: ”VERSO NORD…! WERMAT…!!”
Corsi, corsi, non so per quanto, finché non caddi esausto nei pressi di un cerchio di pietre. La testa mi scoppiava, in mente avevo le immagini convulse della lotta, le urla di Friras colpito a morte, il rumore del ferro delle armi, i ruggiti bestiali degli orchi…”Come ho potuto abbandonarli?” pensai, “Come ho potuto lasciarli preda degli orchi e dei goblin, maledetti…”
Fui risvegliato, al mattino, da una mano che mi scuoteva violentemente. Aprii appena gli occhi, accecato dalla luce del giorno: un soldato in armatura, con le insegne da ufficiale, mi guardava accigliato.
“Almeno non è morto!” disse, rivolgendosi ad un compagno. “Tirati su, avanti!” fece in modo brusco. Mi alzai a fatica, e con mia sorpresa mi trovai di fronte ad un drappello di uomini in armi. Facce brune, scavate dalla fatica, soldati che brandivano chi un’ascia, chi un piccone da minatore; altri avevano addosso pezzi di armature e brandivano grosse lance. L’ufficiale di prima, che doveva essere il comandante del gruppo, mi chiese: “Chi sei? Cosa è successo?”
Ancora intontito, biascicai: “Orchi…sì, grossi pelleverde…ci hanno attaccato…sono salvo per miracolo..:” “Dove eravate accampati?” mi chiese. Ed io: “Poco più giù…una baracca di legno…”
Verso sud…
“Sei fortunato. E’ proprio il giro di ronda che facciamo. Verrai con noi, e controlleremo che le tue parole siano veritiere. Altrimenti…” e si passò l’indice sulla gola, minaccioso..
Incolonnato tra i soldati, camminai con loro verso sud. Erano una decina, piuttosto silenziosi e guardinghi. Riuscii ad apprendere il nome dell’ufficiale, Tiberius, e dalle insegne capii che si trattava di un battaglione di Ribelli: dunque erano questi i guerrieri che difendevano Elea dagli invasori.
Giungemmo infine alla baracca: lo spettacolo era agghiacciante. Cadaveri di orchi e goblin sparsi dappertutto, la baracca semidistrutta e saccheggiata di tutto, armi spezzate a terra, pecore mezzo divorate. Mentre i soldati rovistavano tra le rovine, con un nodo alla gola cercai i cadaveri dei miei ex compagni, pregando in cuor mio di non trovarli. Fortunatamente c’era solo il cadavere di Friras…ma degli altri nessuna traccia. Potevano essere fuggiti, magari…o catturati, o morti altrove. Mi si strinse il cuore per loro, ma almeno c’era una piccola speranza che fossero ancora vivi.
Tiberius si rivolse ai suoi uomini dicendo: “Gli orchi si stanno avvicinando…cattivo presagio. Dopo di loro arriverà un intero esercito, ne sono sicuro. Uomini, torniamo indietro. Riferiamo l’accaduto al nostro Generale, dopodiché raduneremo un buon esercito e torneremo qui…altri pelleverde non tarderanno a farsi vivi. Preparatevi!”
Mentre gli uomini si preparavano a rimettersi in marcia, Tiberius si rivolse a me. “Tu cosa hai intenzione di fare? Hai un posto dove andare?” “Veramente no” risposi, “Non ricordo neanche da dove vengo…”
“Sei un tipo strano” continuò lui, “e ancora non so se fidarmi di te…”. Rimase pensieroso per qualche secondo, poi disse;”D’accordo, faremo così. Puoi decidere se andartene per conto tuo, in balia del destino…o puoi unirti a noi. Vuoi combattere per difendere la terra di Elea dagli invasori?”
In realtà non avevo molta scelta. Non sarei sopravvissuto più di qualche giorno da solo, disarmato e inesperto. Risposi: ”E sia. Verrò con voi. Mi allenerò a combattere e diventerò un soldato Ribelle!”
“Come ti chiami?” mi chiese. “Tharengrane…” risposi io. “Bene Tharengrane, in marcia con gli altri!”
E così partii insieme ai soldati ribelli, verso il mio destino. Chissà se incontrerò ancora Guttri, Denor, o quel ragazzo-lupo di cui non sapevo neanche il nome? In cuor mio lo speravo, e ancora di più bruciavo di odio verso i pelleverdi. Non ricordavo niente della mia vita precedente, non sapevo ancora se in passato avevo vissuto felicemente, o patendo gli stenti di una vita da mendicante, o magari rubando e uccidendo altre persone. Tutto ciò che sapevo era che avevo appena provato cosa significa lavorare duro, farsi delle amicizie, vivere in pace e in un attimo veder cancellato tutto da un’orda di ignobili esseri! Se questo era il sentimento che animava la causa ribelle, probabilmente avevo trovato qualcosa in cui credere.

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