Le origini dell'ideologia britannica.
Le conoscenze del "fattore morale", ossia delle psicologie collettive che i processi sociali e la storia sedimentano nelle classi e negli Stati, è un passaggio innaggirabile per il calcolo dell'azione politica. I classici del marxismo forniscono a questo proposito un'ampio repertorio d'analisi. Esso è parte della concezione stessa della teoria materialista della politica, ed è anche un lascito regolarmente ignorato nelle volgarizzazioni e nelle caricature meccanicistice della concezione di Marx ed Engels. A partire da quel patrimonio di metodo e d'analisi, è necessaria in questo campo anche una ricognizione sistematica delle fonti e dei materiali elaborati dalle scuole di pensiero borghesi, con l'accortezza di sapervi distinguere meriti scientifici e vizi ideologici. L'autrice del testo che iniziamo a trattare, in un'intervista dichiara apertamente il suo distacco dal marxismo, in cui vede troppa attenzione alla lotta delle classi. La sintesi del "fattore morale" britannico è però feconda di buoni spunti di riflessione.
I
Rileggendo la storia della Gran Bretagna fra il 1707 (anno dell'
Actof Union di Inghilterra e Galles con la Scozia) e il 1873 (quando diventa regina Vittoria), Linda Colley, nel libro "Britons. Forging the Nation 1707-1837" (Vintage, 1992), sostiene che in questo periodo si formò un'identità nazionale britannica attorno ad alcuni fattori: primi fra tutti, le guerre contro la Francia cattolica e l'autoidentificazione col protestantesimo, vero riferimento ideologico del Regno Unito; poi il ruolo della Corona, importane a partire dal 1760 con Giorgio III, e la mutazione della classe dirigente, che si autolegittimò nella prova delle guerra contro la Francia; infine, la mobilitazione antifrancese dei sudditi.
Il ruolo del protestantesimo.
L'
Act of Union del 1707 unificò un'isola non ancora omogenea. L'unico elemento davvero comune era il protestantesimo, che offriva una concezione del mondo e faceva emergere un sentimento di identità nazionale che di per sè l'Unione, costruzione meramente politica, non dava. Fondamento esplicito dello Stato britannico fu dunque un protestantesimo aggressivamente pluralista: la cittadinanza era assicurata ad anglicani, non conformisti e dissidenti, mentre i cattolici erano eslusi (fino al 1829) dai diritti civili. Sermoni, almanacchi e libri diffondevano una visione della storia semplice e intollerante: i britannici erano il popolo eletto da Dio, la nuova Israele. "
Quando il ministro di culto dissidente Isaac Watts compilò nel 1719 la sua fortunata traduzione dei Salmi non si peritò di sostituire i riferimenti a Israele nel testo originale con le parole " Gran Bretagna" " Questo "mito" nazionale non veniva smentito né dalla povertà né dalle imposte né dall'arbritario codice criminale vigente: i britannici si percepivano liberi e ricchi più di tutti gli altri popoli, specie di quelli cattolici, e soprattutto più dei francesi. Come popolo eletto, sarebbero stati sottoposti a prove ardue che li avrebbero condotti alla salvezza eterna (la stessa convinzione avranno difronte alle guerre del XX secolo): queste prove erano le guerre contro il nemico cattolico e le ambizioni papiste. Nella sua semplicità, questa ideologia si diffuse soprattutto fra gli strati più bassi della popolazione.
Le classi dominanti.
Al vertice istituzionale c'era la monarchia, che per legge doveva essere di confessione protestante: la dinastia proveniente dall'Hannover tedesco era stata insediata nel 1714 perchè era luterana ed era stata scelta dal parlamento. L'importanza di quest'ultimo era ciò che davvero distingueva il Regno Unito dagli Stati del continente, e portava con sè i suoi riti:
"Sia che ci fosse una battaglia campale per un collegio fra candidati rivali, sia che (ed era la maggioranza dei casi) il deputato fosse di fatto nominato dai più influenti proprietari terrieri locali, un'elezione era comunque un'occasione civica. Veniva sventolata l'Union Jack, le bande suonavano motivi patriottici, si poteva bruciare in effige il Papa". La frazione più forte delle classi dominanti nei primi decenni del XVIII era l'oligarchia anglocentrica, che aveva anche il consenso dei ceti dediti al commercio e all'industria, bisognosi di stabilità interna e di potenza esterna per garantire i loro traffici. Il gruppo egemone era quello dei proprietari terrieri, che ancora nel 1867 costituivano il 75% dei deputati ai comuni.
Il mito di Venezia.
Verso di essi gli uomini del commercio avevano una posizione subordinata e deferente: però il commercio era rispettato e considerato parte vitale dell'economia britannica. Lo confermano anche i gusti artistici della classe dominante. Il pittore veneziano Canaletto dipinse per illustri committenti britannici molte vedute di una Venezia idealizzata:
"Gli stucchi sgretolati, i canali fetidi e i mendicanti straccioni che caratterizzavano la Venezia reale di quell'epoca non erano quello che volevano vedere sulle loro pareti i compratori titolati". Essi volevano vedere la Venezia del Cinquecento, la "
perfetta repubblica marinara"; volevano
"la leggenda del potere e della prosperità veneziani, che esercitava una potente attrazione, perchè suggeriva che l'energia commerciale, il dominio imperiale, il gusto per la libertà e un dominio stabile da parte di un'élite esclusiva, tutto questo avrebbe potuto essere tenuto insieme in modo indolore". I conflitti fra le due frazioni dominanti esistevano, ma secondo la Colley, sono stati esagerati dagli storici: la relazione fra i due ceti poteva anche essere stretta e armoniosa, e configurarsi come una mutua dipendenza.
La crisi giacobita.
Nella prima metà del XVIII secolo la dinastia cattolica degli Stuart, esiliata nel 1668, tentò ripetutamente ma invano di tornare in Gran Bretagna. Troppo legata alla Francia, essa incuteva avversione religiosa, timori di una guerra civile, di un'invasione e di una concorrenza commerciali francese: tutto ciò impedì ai britannici di parteggiare per gli Stuart.Il più importante tentativo giacobita (così venivano chiamati gli uomini degli Stuart, dal loro ultimo re Giacomo II) è quello del 1745-46, quando Charles Edward Stuart entrò da Nord in Inghilterra, ma poi si ritirò e fu sconfitto a Culloden. La macchina statale britannica dimostrò allora molti difetti: il re e la maggior parte dell'esercito erano sul continente, il parlamento si riunì solo tre mesi dopo l'inizio dell'invasione. Però, mentre la maggioranza dei sudditi rimase passiva, una salda minoranza difese l'ordine hannoveriano: l'intera classe dominante, terriera, commerciale e industriale, contrastò i giacobiti e si impegno a difendere la Gran Bretagna, sia pure spesso con ottiche fortemente locali più che nazionali.
L'ascesa borghese.
Passato il pericolo, ci furono molte critiche alla macchina statale. Molti uomini di commercio contribuirono a fondare società patriottiche che promuovevano prodotti inglesi e premiavano scoperte e invenzioni utili: è il caso della "Lodevole associazione degli Anti-Gallicani", che oltre contrastare i prodotti francesi a vantaggio di quelli nazionali, "
quattro volte all'anno commisionava a un ecclesiastico un sermone sulla necessità di uno sforzo civico contro le iniquità della Francia. Il sermone veniva poi pubblicato a spese dell'associazione". Interpretate spesso come elemento di asservità borghese, queste società sfidavano la disorganizzazione statale e implicitamente ponevano la richiesta di un allargamento della cittadinanza, ma favorivano al tempo stesso stretti legami tra frazione commerciale e frazione terriera (fra i patroni c'erano anche uomini della dinastia)
La guerra dei Sette Anni.
La guerra (1756-63) portò alla Gran Bretagna molte conquiste in tutto il mondo, che resero il suo impero il più esteso di tutti. Ma esse paradossalmente suscitarono incertezza e nervosismo: sia perchè si pensò che dovesse essere ammodernato l'apparato amministrativo e militare, sia perchè da un impero protestante e anglofono si era passati a uno che comprendeva cattolici francofoni (nel Québec) e asiatici. E sia perchè, affermava la Colley, un popolo orgoglioso di essere libero non poteva fare a meno di chiedersi se gli fosse lecito dominare tanti altri popoli. In questa insicurezza venne coinvolto l'elemento iglese del Regno Unito: la percezione di un suo declino trovò un interprete in John Wilkes, deputato, liberista, agitatore, convinto che proprio l'Inghilterra (e non la Gran Bretagna) fosse il paese eletto da Dio. Wilkes diede voce alla preoccupazione nei confronti della componente scozzese in ascesa. In effetti la Scozia, almeno a partire dal 1760, era integrate nel Regno Unito: ci si occupava delle Highlands e si sussidiava uno sviluppo industriale; fioriva l'Illuminismo scozzese di David Hume e Adam Smith; dalle università scozzesi uscivano molti più medici di quanti ne laureasse l'Inghilterra e anche molti ingegneri e architetti. Ancora discriminati dall'establishment (pur se contavano un premier, Lord Bute) gli scozzesi si affermarono soprattutto in campo militare e imperiale: in India il loro contributo fu molto elevato, come del resto quello degli irlandesi, mentre fra gli inglesi finivano nelle colonie quelli meno ricchi, fortunati e capaci.
Lotta Comunista marzo 2006.
Molto probabilmente la storia continuerà con altri stati dell' Europa. Per questo mese c'è questo, è la prima parte dedicata all'Inghilterra. Poi credo che continuerà, con gli altri stati europei, sarà un pistolotto megagalattico...