Le culture politiche in Europa... un po di storia, non guasta mai!!

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
cane...sciolto
00martedì 16 maggio 2006 22:11
Le origini dell'ideologia britannica.
Le conoscenze del "fattore morale", ossia delle psicologie collettive che i processi sociali e la storia sedimentano nelle classi e negli Stati, è un passaggio innaggirabile per il calcolo dell'azione politica. I classici del marxismo forniscono a questo proposito un'ampio repertorio d'analisi. Esso è parte della concezione stessa della teoria materialista della politica, ed è anche un lascito regolarmente ignorato nelle volgarizzazioni e nelle caricature meccanicistice della concezione di Marx ed Engels. A partire da quel patrimonio di metodo e d'analisi, è necessaria in questo campo anche una ricognizione sistematica delle fonti e dei materiali elaborati dalle scuole di pensiero borghesi, con l'accortezza di sapervi distinguere meriti scientifici e vizi ideologici. L'autrice del testo che iniziamo a trattare, in un'intervista dichiara apertamente il suo distacco dal marxismo, in cui vede troppa attenzione alla lotta delle classi. La sintesi del "fattore morale" britannico è però feconda di buoni spunti di riflessione.

I

Rileggendo la storia della Gran Bretagna fra il 1707 (anno dell' Actof Union di Inghilterra e Galles con la Scozia) e il 1873 (quando diventa regina Vittoria), Linda Colley, nel libro "Britons. Forging the Nation 1707-1837" (Vintage, 1992), sostiene che in questo periodo si formò un'identità nazionale britannica attorno ad alcuni fattori: primi fra tutti, le guerre contro la Francia cattolica e l'autoidentificazione col protestantesimo, vero riferimento ideologico del Regno Unito; poi il ruolo della Corona, importane a partire dal 1760 con Giorgio III, e la mutazione della classe dirigente, che si autolegittimò nella prova delle guerra contro la Francia; infine, la mobilitazione antifrancese dei sudditi.

Il ruolo del protestantesimo.
L' Act of Union del 1707 unificò un'isola non ancora omogenea. L'unico elemento davvero comune era il protestantesimo, che offriva una concezione del mondo e faceva emergere un sentimento di identità nazionale che di per sè l'Unione, costruzione meramente politica, non dava. Fondamento esplicito dello Stato britannico fu dunque un protestantesimo aggressivamente pluralista: la cittadinanza era assicurata ad anglicani, non conformisti e dissidenti, mentre i cattolici erano eslusi (fino al 1829) dai diritti civili. Sermoni, almanacchi e libri diffondevano una visione della storia semplice e intollerante: i britannici erano il popolo eletto da Dio, la nuova Israele. " Quando il ministro di culto dissidente Isaac Watts compilò nel 1719 la sua fortunata traduzione dei Salmi non si peritò di sostituire i riferimenti a Israele nel testo originale con le parole " Gran Bretagna" " Questo "mito" nazionale non veniva smentito né dalla povertà né dalle imposte né dall'arbritario codice criminale vigente: i britannici si percepivano liberi e ricchi più di tutti gli altri popoli, specie di quelli cattolici, e soprattutto più dei francesi. Come popolo eletto, sarebbero stati sottoposti a prove ardue che li avrebbero condotti alla salvezza eterna (la stessa convinzione avranno difronte alle guerre del XX secolo): queste prove erano le guerre contro il nemico cattolico e le ambizioni papiste. Nella sua semplicità, questa ideologia si diffuse soprattutto fra gli strati più bassi della popolazione.

Le classi dominanti.
Al vertice istituzionale c'era la monarchia, che per legge doveva essere di confessione protestante: la dinastia proveniente dall'Hannover tedesco era stata insediata nel 1714 perchè era luterana ed era stata scelta dal parlamento. L'importanza di quest'ultimo era ciò che davvero distingueva il Regno Unito dagli Stati del continente, e portava con sè i suoi riti: "Sia che ci fosse una battaglia campale per un collegio fra candidati rivali, sia che (ed era la maggioranza dei casi) il deputato fosse di fatto nominato dai più influenti proprietari terrieri locali, un'elezione era comunque un'occasione civica. Veniva sventolata l'Union Jack, le bande suonavano motivi patriottici, si poteva bruciare in effige il Papa". La frazione più forte delle classi dominanti nei primi decenni del XVIII era l'oligarchia anglocentrica, che aveva anche il consenso dei ceti dediti al commercio e all'industria, bisognosi di stabilità interna e di potenza esterna per garantire i loro traffici. Il gruppo egemone era quello dei proprietari terrieri, che ancora nel 1867 costituivano il 75% dei deputati ai comuni.

Il mito di Venezia.
Verso di essi gli uomini del commercio avevano una posizione subordinata e deferente: però il commercio era rispettato e considerato parte vitale dell'economia britannica. Lo confermano anche i gusti artistici della classe dominante. Il pittore veneziano Canaletto dipinse per illustri committenti britannici molte vedute di una Venezia idealizzata: "Gli stucchi sgretolati, i canali fetidi e i mendicanti straccioni che caratterizzavano la Venezia reale di quell'epoca non erano quello che volevano vedere sulle loro pareti i compratori titolati". Essi volevano vedere la Venezia del Cinquecento, la "perfetta repubblica marinara"; volevano "la leggenda del potere e della prosperità veneziani, che esercitava una potente attrazione, perchè suggeriva che l'energia commerciale, il dominio imperiale, il gusto per la libertà e un dominio stabile da parte di un'élite esclusiva, tutto questo avrebbe potuto essere tenuto insieme in modo indolore". I conflitti fra le due frazioni dominanti esistevano, ma secondo la Colley, sono stati esagerati dagli storici: la relazione fra i due ceti poteva anche essere stretta e armoniosa, e configurarsi come una mutua dipendenza.

La crisi giacobita.
Nella prima metà del XVIII secolo la dinastia cattolica degli Stuart, esiliata nel 1668, tentò ripetutamente ma invano di tornare in Gran Bretagna. Troppo legata alla Francia, essa incuteva avversione religiosa, timori di una guerra civile, di un'invasione e di una concorrenza commerciali francese: tutto ciò impedì ai britannici di parteggiare per gli Stuart.Il più importante tentativo giacobita (così venivano chiamati gli uomini degli Stuart, dal loro ultimo re Giacomo II) è quello del 1745-46, quando Charles Edward Stuart entrò da Nord in Inghilterra, ma poi si ritirò e fu sconfitto a Culloden. La macchina statale britannica dimostrò allora molti difetti: il re e la maggior parte dell'esercito erano sul continente, il parlamento si riunì solo tre mesi dopo l'inizio dell'invasione. Però, mentre la maggioranza dei sudditi rimase passiva, una salda minoranza difese l'ordine hannoveriano: l'intera classe dominante, terriera, commerciale e industriale, contrastò i giacobiti e si impegno a difendere la Gran Bretagna, sia pure spesso con ottiche fortemente locali più che nazionali.

L'ascesa borghese.
Passato il pericolo, ci furono molte critiche alla macchina statale. Molti uomini di commercio contribuirono a fondare società patriottiche che promuovevano prodotti inglesi e premiavano scoperte e invenzioni utili: è il caso della "Lodevole associazione degli Anti-Gallicani", che oltre contrastare i prodotti francesi a vantaggio di quelli nazionali, "quattro volte all'anno commisionava a un ecclesiastico un sermone sulla necessità di uno sforzo civico contro le iniquità della Francia. Il sermone veniva poi pubblicato a spese dell'associazione". Interpretate spesso come elemento di asservità borghese, queste società sfidavano la disorganizzazione statale e implicitamente ponevano la richiesta di un allargamento della cittadinanza, ma favorivano al tempo stesso stretti legami tra frazione commerciale e frazione terriera (fra i patroni c'erano anche uomini della dinastia)

La guerra dei Sette Anni.
La guerra (1756-63) portò alla Gran Bretagna molte conquiste in tutto il mondo, che resero il suo impero il più esteso di tutti. Ma esse paradossalmente suscitarono incertezza e nervosismo: sia perchè si pensò che dovesse essere ammodernato l'apparato amministrativo e militare, sia perchè da un impero protestante e anglofono si era passati a uno che comprendeva cattolici francofoni (nel Québec) e asiatici. E sia perchè, affermava la Colley, un popolo orgoglioso di essere libero non poteva fare a meno di chiedersi se gli fosse lecito dominare tanti altri popoli. In questa insicurezza venne coinvolto l'elemento iglese del Regno Unito: la percezione di un suo declino trovò un interprete in John Wilkes, deputato, liberista, agitatore, convinto che proprio l'Inghilterra (e non la Gran Bretagna) fosse il paese eletto da Dio. Wilkes diede voce alla preoccupazione nei confronti della componente scozzese in ascesa. In effetti la Scozia, almeno a partire dal 1760, era integrate nel Regno Unito: ci si occupava delle Highlands e si sussidiava uno sviluppo industriale; fioriva l'Illuminismo scozzese di David Hume e Adam Smith; dalle università scozzesi uscivano molti più medici di quanti ne laureasse l'Inghilterra e anche molti ingegneri e architetti. Ancora discriminati dall'establishment (pur se contavano un premier, Lord Bute) gli scozzesi si affermarono soprattutto in campo militare e imperiale: in India il loro contributo fu molto elevato, come del resto quello degli irlandesi, mentre fra gli inglesi finivano nelle colonie quelli meno ricchi, fortunati e capaci.

Lotta Comunista marzo 2006.

Molto probabilmente la storia continuerà con altri stati dell' Europa. Per questo mese c'è questo, è la prima parte dedicata all'Inghilterra. Poi credo che continuerà, con gli altri stati europei, sarà un pistolotto megagalattico... [SM=x751552] [SM=x751552] [SM=x751549] [SM=x751553] [SM=x751578]
cane...sciolto
00mercoledì 24 maggio 2006 20:59
Le origini dell'ideologia britannica. II

Una svolta importante della della storia britannica del XVIII secolo fu la sconfitta patita ad opera delle colonie americane, dove gli inglesi emigravano per ordine del re, ma che non furono mai autorizzate da leggi parlamentari, mai sottoposte a un forte controllo , e che non ebbero mai alcun rappresentante che fosse americano ai Comuni.

L'impatto dell'indipendenza americana.
La guerra americana portò anche problemi ideologici, perchè si combatteva contro un nemico anglofono e protestante: l'opinione politica delle due sponde ne fu divisa anche su base regionale (l'East Anglia e il Galles inclinavano in prevalenza per i coloni, la Scozia era antiamericana). D'altra parte la sconfitta ebbe effetti benefici sull'impero, che si volle più efficiente e meno permissivo, e anche sulla coesione nazionale che ne fu rinfigorita. L'élite dirigente dovette però ricostruire la propria autorità: affrontando la guerra contro la Francia con il suo carico opprimente di lavoro e di tensione psicologica che incise molto sui nervi e sull'esistenza stessa dei suoi uomini (ci furono diversi casi di follia e di suicidio). La sfida più pericolosa era quella della legittimazione: quale diritto di governare poteva avere un'aristocrazia terriera continuamente accusata di corruzione e nepotismo, costretta a confrontarsi con l'élite napoleonica che doveva spesso al merito personale la propria posizione? Certo non le mancavano alcune qualità: era un gruppo omogeneo, sapeva lavorare, apprezzava la modernizzazione economica, era anche pronta a cooptare nelle sue file nuovi elementi, pur facendo riferimento a un nucleo di 400 famiglie dominanti.

La legittimazione di una classe dirigente rinnovata.
Su questa basi l'élite riuscì a legittimarsi nuovamente. Ci fu intanto un ricambio: molte famiglie di proprietari terrieri si estinsero nel XVIII secolo, e un terzo circa di tutte le tenute passarono di mano. Inoltre entrarono nell'élite anche elementi non inglesi, che contribuirono a consolidare una classe dirigente con fisionomia più britannica, spesso caratterizzata da una "doppia nazionalità". La Colley ("Britons. Forging the Nation 1707-1837", Vintage, 1992) ricorda l'esempio di George Gordon, quarto conte di Aberdeen, educato in Inghilterra, pupillo di William Pitt il giovane e poi primo ministro nel 1852: "Nulla faceva sobbalzare più fortemente Aberdeen di ciò che percepisce come un attacco al sistema legale o bancario o alle leggi sul matrimonio della Scozia. Egli conosceva ciò che era ancora caratteristico della sua terra natia, e disdegnava ogni interferenza inglese negli affari scozzesi. Per lui non c'era alcun conflitto fra il lavoro a Londra come politico britannico e l'esser assertivamente scozzese". Si aprì anche l'accesso alla classe dirigente a un numero controllato di uomini dalle grandi qualità e amici dell'ordine esistente: è il caso di Arthur Wellesley, il figlio più giovane di un pari irlandese relativamente povero, che le prove militari in India e in Europa resero in sequenza barone, visconte, conte, marchese e infine duca di Wellington. Cominciò a sparire dal costume delle classi elevate il cosmopolitismo: la lingua e la moda francese, gli studi in Olanda, il viaggio turistico e formativo in continente. I giovani delle classi dominanti iniziarono a studiare nelle scuole private che portarono omologazione culturale (e anche linguistica); furono rilanciati il turismo interno e il gusto per le belle arti nazionali; e perfino la caccia alla volpe servì ad esibire il nuovo tipo del patrizio. Ma soprattutto l'élite incarnava e ostentava il patriottismo, il culto dell'eroismo e del servizio dello Stato, appreso dai classici. Come è consuetudine, i più attaccati agli ideali patriottici erano i parvenu come Horatio Nelson, ma tutta l'élite vestiva l'uniforme: si vivevano e al tempo stesso si esibivano le virtù tradizionali, e il punto di riferimento era William Pitt il giovane, con il suo lavoro indefesso, la sua forte professionalità, una virtù privata senza compromessi e un patriottismo ostentato. Si tratta del resto, osseva la Colley, dello stesso stile di Maximilien Robespierre di là della Manica.

Al sevizio della nazione.
Il culto dell'eroismo si intrecciava con la realtà stessa della vita e della morte. Ecco quello che scrive la Colley, con rispetto rafforzato da un velo di ironia, della morte di William Pitt il giovane: "E' del tutto possibile, suppongo, che il cameriere che portò l'ultimo pasto a William Pitt il giovane avesse ragione, e che il 23 gennaio 1806 Pitt morisse davvero dicendo "avrei proprio bisogno di un pasticcio di carne di Bellamy". Però sembra molto più probabile che sia vera la versione pietosa dei suoi ultimi istanti, e che quest'uomo strano, molto saccente, che leggeva i classici in ogni momento che riusciva a rubare agli affari pubblici o all'alcool, sia morto pronunciando le parole "Oh, il mio paese! Come amo il mio paese!" L'ambasciatore statunitense a Londra Richard Rush nel suo primo ricevimento a corte nel 1818 vide i gradi più alti dell'élite britannica: "C'erano uomini di genio e scienza. La nobiltà era numerosa, e così i militari. C'erano da quaranta a cinquanta generali, forse altrettanti ammiragli. "Ecco il generale Walker" mi fu detto, "trapassato dalle baionette mentre guidava l'assalto a Badajoz". E quello accanto a lui, alto e claudicante? "Il colonnello Ponsoby, fu lasciato per morto a Waterloo...". Poi veniva uno senza una gamba, Lord Anglesea. Un quarto era stao ferito a Seringapatam; un quinto a Talavera; alcuni avevano sofferto in Egitto: altri in America. C'erano quelli che avevano preso le loro cicatrici sulla tolda con Nelson; altri che le portavano dai giorni di Howe [comandante delle truppe britanniche in America]. Tutti avevano "fatto il loro dovere", questo era l'elogio tributato di preferenza."

Il nuovo ruolo della monarchia.
A partire degli anni 80 del XVIII secolo la monarchia divenne più popolare e pratiottica. Se i primi hannoveriani, Giorgio I e Giorgio II, erano due sovrani tedeschi privi di carisma e incuranti della loro immagine pubblica, il nipote Giorgio III (re dal 1760 al 1820) era nato in Gran Bretagna. Dal padre, il principe di Galles Federico Luigi, morto senza aver potuto regnare, riprese scelte innovative: avere legami politici bipartisan (non più solo con i Wing come i nonni, ma anche con i Tory), promuovere cultura e belle arti nazionali, essere e mostrarsi buon padre di famiglia. In tal modo Giorgio III recuperò molto in termini di immagine e di ruolo. Non piacque subito: cominciò a piacere dopo la sconfitta in America, dalla quale uscì indenne grazie alla limitata funzione politica della monarchia. Dopo il 1789 proprio la rivoluzione francese aiutò la monarchia britannica a rappresentare l'unione nazionale, agevolata anche dalla stampa e nonostante il progressivo discendere della follia nella mente del re.

La mobilitazione popolare.
Durante le guerre contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica si verificarono nel Regno Unito proteste popolari ma si vide anche un patriottismo di massa. Per la verità nei primi anni delle guerre il governo temeva i suoi sudditi almeno quanto temeva i francesi: per questo pose proprietari terrieri e industriali, coadiuvati da piccolo-borghesi, a comandare i reparti della milizia, composti in genere da povera gente di rigida fede protestante. Ma nel 1789 la minaccia concreta di un'invasione francese costrinse il governo a censire i possibili volontari, che risultarono essere circa mezzo milione, per lo più inglesi e lavoratori urbani: "L'artigiano urbano, per il fatto di aver ricevuto un'istruzione, di essere più facilmente raggiunto dalla propaganda e dalle feste di arruolamento e, fattore decisivo, per il fatto di non essere legato alla terra, poteva essere in tempo di guerra un cittadino più utile del contadino solitario. Sotto questo aspetto l'industrializzazione e l'urbanizzazione precoci, lungi dal rendere automaticamente la Gran Bretagna più sensibile alla rivoluzione, possono ben aver aiutato a tenere a bada le forze della Rivoluzione francese.

Il sentimento antifrancese.
Le motivazioni di coloro che risposero all'inchiesta governativa dando la loro disponibilità erano naturalmente disparate: dalla voglia di menar le mani fino al patriottismo, riassunti entrambi nella risposta di un lavorante giardiniere al questionario: "Tarperò le ali ai mangia-rane francesi". Anche il calcolo dell'interesse individuale era una spinta a dichiararsi volontari. Lo scozzese Peter Laurie, mandato a Londra dalla famiglia a cercar fortuna, si arruolò in un corpo metropolitano di volontari: "Provavo molta ripugnanza per il servizio militare -scriverà nelle sue memorie- ma non ho mai mancato di trarre profitto da qualsiasi cosa potesse incrementare i miei affari e la mia reputazione". Vendette ai suoi camerati selle e cinture per l'uniforme a prezzi scontati, e continuò a usare i suoi contatti militari per acquisire vantaggiose ordinazioni dai reggimenti della Compagnia delle Indie Orientali: "Esempio di self-made man, Laurie finì i suoi giorni come direttore della Compania delle Indie Orientali e sindaco di Londra". Il risultato della mobilitazione fu quello che la Colley considera un nuovo contratto fra governanti e governati: il popolo viene armato, ma non usa le armi per fare pressioni politiche o per rivoltarsi. Il popolo britannico non credeva in una soluzione francese, ma alla retorica patriottica della lotta per la libertà contro la tirannide militare di Bonaparte.

Dopo Waterloo.
La vittoria sull'Imperatore dei francesi portò più disorientamento che soddisfazione. Si imposero tre questioni che implicavano una ridefinizione della nazione. La prima fu quella cattolica: il declino dello zelo protestante e l'opportunità di calmare le tensioni in Irlanda portarono alla legge di emancipazione dei cattolici del 1829, che suscitò comunque molto malumore e accuse di tradimento, più forti fra le classi subordinate. Sperdute contee di campagna che non avevano mai visto un cattolico o un irlandese, e vedevano raramente gli abitanti delle contee vicine, mandarono per la prima e ultima volta nella storia petizioni di protesta al parlamento: per loro il protestantesimo non era solo un credo religioso, ma anche una parte vitale della loro identità. Ora il patriottismo protestante aveva perso la sua centralità: cosa sarebbe emerso al suo posto come nucleo di coesione nazionale? La risposta secondo la Colley venne dalla seconda questione, quella del diritto di voto: la riforma elettorale del 1832 portò la percentuale degli aventi diritto al voto al 20% della popolazione maschile ma soprattutto rimpiazzò il vecchio sistema "anglocentrico", che favoriva il Sud e le forze e i patronati locali, con un sistema di maggiori garanzie democratiche e più controllato dallo Stato. La terza questione fu quella del modo di trattare i sudditi dell'impero: furono aboliti il commercio degli schiavi (1807) e la schiavitù nell'impero (1838). Secondo la Colley, la scelta favorì una visione conservatrice, perchè consentì alla Gran Bretagna di percepirsi come nazione che ama la libertà ed è arbitra del mondo civile e non civile: il che a sua volta alimentò nei britannici un senso di superiorità circa la propria libertà.

di A.V. "Lotta Comunista" aprile 2006.
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 16:23.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com