L'Isola della Fata di E.A. Poe

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danzandosottolaluna
00giovedì 17 febbraio 2005 11:12


[...]Fu durante i miei vagabondaggi solitari, in una lontanissima regione montuosa, chiusa tra le alture, con tristi tortuosi fiumi e malinconici laghetti dormienti, che trovai per caso un ruscello e un’isoletta. Li incontrai all’improvviso nel giugno ricco di foglie e mi gettai sull’erba, sotto i rami di un arbusto odoroso a me sconosciuto, per poter riflettere mentre rimiravo la scena. Sentivo che solo così potevo osservarla – tanto fantastico e irreale era il loro aspetto.
Da tutti i lati – salvo a occidente dove il sole era in procinto di tramontare – si elevavano le verdeggianti pareti della foresta. Il piccolo fiume che deviava bruscamente il suo corso, così che se ne perdeva immediatamente la vista, sembrava non potersi liberare dalla sua prigione ed essere assorbito dal profondo fogliame verdeggiante degli alberi a oriente... mentre nell’opposto quadrante (così mi sembrava mentre giacevo disteso, con lo sguardo rivolto verso l’alto) si gettava silenzioso, senza interruzione giù nella valle, come una cascata d’oro e di porpora dalle crepuscolari sorgenti del cielo.
All’incirca nel mezzo del ristretto panorama che la mia sognante visione inquadrava, una piccola isola circolare, invasa dal verde, riposava nel seno della corrente.
Tanto fuse qui rive e ombra
che sembravano entrambe pendere dal cielo.
Tanto simile ad uno specchio era l’acqua immota che era impossibile dire a quale punto del pendio di smeraldo delle zolle cominciasse il suo cristallino dominio.
La mia posizione mi consentiva di vedere ad un tempo sia il lato est che quello ovest dell’isoletta e potevo osservare le differenze assai marcate del loro aspetto. Il secondo sembrava un raggiante harem di bellezze boschive. Risplendeva e rosseggiava sotto gli occhi del sole morente, e sorrideva dolcemente con i suoi fiori; l’erba era bassa, elastica, dolcemente profumata, disseminata di asfodeli; gli alberi svettavano snelli, allegri, brillanti, graziosi – avevano la corteccia liscia, lucida, parzialmente colorata, il fogliame e la sagoma di tipo orientale.
Sembrava che su tutto regnasse un profondo senso di vita e di gioia e, sebbene non spirasse un alito di vento dal cielo, ogni cosa si muoveva per lo svolazzare grazioso qua e là di innumerevoli farfalle, che potevano essere confuse con tulipani alati .
L’altra estremità dell’isola, quella orientale, era immersa nell’ombra più cupa. Una fresca caligine, tuttavia bella e piena di pace pervadeva qui ogni cosa. Gli alberi erano di colore scuro, malinconici nella forma e nell’aspetto... si contorcevano in sembianti spettrali, paurosi e solenni, tali da evocare pensieri di dolori mortali e di morte prematura. L’erba aveva la tinta cupa del cipresso e gli steli pendevano ricurvi mentre qua e là tra loro affioravano molti piccoli tumuli bassi, stretti e non molto lunghi, che avevano l’aspetto di tombe, anche se non lo erano, sebbene sopra e intorno ad essi fossero nati il rosmarino e la ruta. L’ombra degli alberi cadeva pesantemente sull’acqua e sembrava seppellirvisi dentro, impregnando le profondità di quell’elemento della sua tinta oscura. Immaginavo che ciascuna ombra, man mano che il sole scendeva più in basso, si separasse con dispiacere dal tronco che gli aveva dato vita, per essere assorbita dalla corrente, mentre altre ombre momentaneamente inviate dagli alberi prendevano il posto di quelle precedenti ora sepolte.
Questa idea, impadronitasi della mia immaginazione la eccitò intensamente e mi persi del tutto nei sogni. «Se mai vi è stata un’isola incantata», – dissi a me stesso – «è questa. Questo è il rifugio delle poche dolci Fate che sopravvivono alla distruzione della razza. Sono loro queste verdi tombe? Oppure esse perdono le loro dolci vite come gli uomini perdono le loro? Morendo non si distruggono forse con dolore, rendendo a Dio la loro vita a poco a poco come gli alberi rendono ombra dopo ombra, esaurendo così la loro materia nella dissoluzione? Quello che l’albero che si consuma è per l’acqua che assorbe la sua ombra, divenendo più scura per effetto di ciò che esso perde, non potrebbe essere la vita della fata per la morte che la sommerge?»
Mentre così fantasticavo con gli occhi socchiusi, il sole rapidamente tramontava, e correnti vorticose mulinavano tutto intorno all’isola, trascinando nel loro gorgo larghe, lucenti, bianche scaglie di corteccia del sicomoro – scaglie che, assumendo le più varie posizioni sull’acqua, potevano indurre una fervida immaginazione a trovarvi tutto quello che voleva –; mentre così meditavo, mi sembrò che la figura di una di quelle Fate, delle quali stavo appunto fantasticando, avanzasse nel buio venendo dalla luce dell’estremità occidentale dell’isola. La figura stava eretta su una canoa molto fragile che ella sospingeva con un remo fantasma. Mentre era sotto l’effetto degli ultimi raggi del sole il suo atteggiamento sembrava manifestare gioia... ma il dolore sembrava trasfigurarla quando entrava nell’ombra. Lentamente scivolava sull’acqua e alla fine compì il periplo dell’isola rientrando nella zona illuminata. «La rivoluzione che è stata da poco compiuta dalla Fata», continuai pensieroso, «rappresenta il ciclo del breve anno della sua vita. Ella ha navigato attraverso il suo inverno e la sua estate, ora è di un anno più vicina alla morte; perché ho notato che non appena è entrata nella zona oscura, la sua ombra è caduta dal suo corpo ed ha volteggiato fin dentro l’acqua scura, rendendola ancora più nera.»
E di nuovo riapparvero la barca e la Fata, ma quest’ultima aveva un atteggiamento più cauto e incerto e una minore gioia estatica. Volteggiò di nuovo sull’acqua dalla piena luce fino nel buio (di momento in momento più cupo) e di nuovo la sua ombra cadde da lei entro l’acqua d’ebano e fu assorbita dalla assoluta oscurità. E ancora più e più volte compì il periplo dell’isola (mentre il sole scendeva verso il suo sonno) e ogni volta che ritornava nella luce, c’era più pena sulla sua persona, mentre ella diventava più debole, molto più diafana, più indistinta. E ad ogni passaggio nell’oscurità cadeva da lei un’ombra più scura, che veniva inghiottita nell’oscurità ancor più nera. Alla fine però, quando il sole fu definitivamente tramontato, la Fata, ora soltanto mero fantasma di se stessa, arrivò sconsolata con il suo battello nella regione dei flutti d’ebano – ma dove si diresse a quel punto non sono in grado di precisare perché l’oscurità era caduta su tutte le cose e io non scorgevo più la sua magica figura.



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