GIOVANNI CONSO E L'INCUBO DEL 1993

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INES TABUSSO
00domenica 7 ottobre 2007 14:19


"Il 5 marzo '93, il governo Amato varò il primo colpo di spugna: il decreto firmato dal ministro Conso che depenalizzava il reato di illecito finanziamento ai partiti e lo trasformava in semplice infrazione amministrativa, punibile con una comoda multa. Amato disse che gliel'avevano chiesto i pm del pool. Borrelli smentì con un clamoroso comunicato. Ma Scalfaro respinse al mittente il decreto, in quanto anticostituzionale. Pochi giorni dopo Amato, col governo decimato dagli avvisi di garanzia, si dimise, sostituito da Ciampi".
(Marco Travaglio, L'Unita', 12 maggio 2006)
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Qual è, dunque, la data più importante di Tangentopoli, secondo lei?
"Il 13 luglio 1993, quando il presidente della Repubblica Scalfaro si rifiutò di firmare il decreto Conso sul finanziamento ai partiti, dopo che i magistrati di Milano minacciarono in Tv le dimissioni. Tanto bastò per indurre la classe politica a tornare sui suoi passi".
(Mino Martinazzoli, intervista a "Famiglia Cristiana", 14 febbraio 2002)
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IL MESSAGGERO
07/10/2007
Pag. 1
INTERVISTA A CONSO: I MAGISTRATI TACCIANO SUI CASI CHE LI COINVOLGONO
Toghe in video/Bertinotti: torbido rapporto politici-pm-tv
Intervista a: GIOVANNI CONSO
di MASSIMO MARTINELLI

www.ilmessaggero.it/view.php?data=20071007&ediz=01_NAZIONALE&npag=1&file=D_14.xml&type=...

GIOVANNI Conso, presidente emerito della Corte Costituzionale e giurista di rilievo internazionale, non ha dubbi: esiste un limite professionale, anche e soprattutto di tipo deontologico, che ogni magistrato dovrebbe osservare quando rilascia interviste pubbliche: quello di parlare dei procedimenti che lui stesso conduce in prima persona senza entrare nel merito delle problematiche più complessive, anche se riferite alla giustizia.
E anche i toni del dibattito in corso sui mass media, specie in televisione, tra politici e magistrati dovrebbero tornare ad essere pacati, come lo erano molti anni fa.
Professor Conso, quale deve essere a suo giudizio il limite che un magistrato deve porsi nel delicato rapporto con i mass media?
«Non c’è dubbio che l’articolo 21 della Costituzione garantisca la libertà di espressione a tutti, magistrati compresi. Ma per chi esercita una funziona pubblica, tale libertà non è illimitata. Ci sono ad esempio segreti ben precisi da rispettare, cominciando da quello cosiddetto istruttorio, per finire con quello della Camera di Consiglio. Vi è poi un limite deontologico e quindi più generale, che sconsiglia di esternare, tanto meno in pubblico, considerazioni attinenti a processi in cui si è direttamente impegnati. Altra cosa è, invece, l’esprimere giudizi su questioni prive di ricadute sul proprio operato professionale, come potrebbe essere esprimere valutazioni su proposte di riforma».
Il problema che lei ha appena evidenziato è sempre esistito oppure è figlio della spettacolarizzazione della giustizia, degli ultimi anni?
«Certo, in passato, dichiarazioni del genere, come quelle attinenti a procedimenti in cui si è direttamente impegnati, non si verificavano con il clamore odierno. Anche perché il numero delle reti televisive e la quantità delle trasmissioni dedicate a questi argomenti erano di gran lunga inferiori».
Qual è il suo auspicio, in questi tempi in cui il rapporto tra politica e magistratura risulta sempre più discusso?
«Magari si potesse tornare a quei toni autolimitativi che molti anni fa caratterizzavano il comportamento dei magistrati e dei politici».


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