Confusione al potere nei beni culturali

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centrosardegna
00sabato 5 maggio 2007 19:21
Da decenni le Regioni e gli Enti locali cercano di mettere le mani sulla gestione dei beni culturali e del paesaggio. Spesso le intenzioni non sono delle più nobili. Anzi. Spesso è il desiderio di dare corpo alle peggiori iniziative speculative o elettoralistiche. Rimaniamo dell'idea che sia lo Stato a dover svolgere un ruolo preminente in materia, con la collaborazione di Regioni e Comuni, ma con il potere-dovere di dire l'ultima parola. Per fortuna siamo in tanti a pensarla così.





da La Repubblica

L’attacco delle regioni ai Beni culturali. Salvatore Settis, Presidente del Consiglio superiore dei beni culturali e del paesaggio

Le parole e le cose, si sa, possono divorziare. Perciò nell’immemore Macondo di Cent’anni di solitudine Aureliano Buendia «con uno stecco segnò ogni cosa col suo nome: tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto, casseruola, vacca, capra, porco, gallina, manioca, banano». Perciò il protagonista dei recentissimi Viaggi nello scriptorium di Paul Auster (Einaudi) vive in una stanza dove «sul comodino c’è scritto COMODINO, sulla lampada c’è la parola LAMPADA, sul muro c’è una striscia di nastro con scritto MURO».
Più facile ancora è la perdita di memoria se si tratta di concetti, di termini astratti. Per esempio, i principi della Costituzione. Prima al mondo, la nostra Costituzione pose la tutela dei beni culturali e del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato: culmine e compimento di una secolare cultura italiana della conservazione che nelle leggi del 1939 aveva trovato organica espressione. Perciò l’art. 9 («La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») è connesso allo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, e più in generale al «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3). Ma, come a Macondo, qualche colonnello di Palazzo Chigi lo ha dimenticato. In un dilettantesco "Albero del Programma per l’attuazione del Programma di Governo" visibile nel sito della Presidenza del Consiglio, "Valorizzare il nostro patrimonio di beni culturali e paesistici" è indicato fra le priorità di una "rinascita culturale come strategia per la crescita". D’accordo, ma come ? Semplice, risponde l’Albero: "Consolidare l’organizzazione statale della tutela", "Incrementare la capacità operativa delle Soprintendenze" e persino "Rafforzare i poteri e l’autorevolezza dei Soprintendenti", ma contemporaneamente "Estendere le funzioni di tutela ai governi territoriali, lasciando allo Stato le funzioni di alta garanzia generale". Insomma: le Soprintendenze si potenziano e si consolidano togliendo loro tutto quello che fanno (la tutela) per affidarlo a comuni, province, regioni. Che questa ipotesi sia anticostituzionale, l’estensore dell’Albero non giunge a sospettare. Qualcuno ci spiegherà, c’è da scommetterlo, che si è trattato di un infortunio, tanto più che questa concezione della tutela è l’opposto di quella sostenuta dal ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli, in particolare con riferimento al paesaggio.

Sarà un infortunio, sarà un colonnello che inciampa nelle parole. Ma è nel sito di Palazzo Chigi, e questo è un dato politico che obbliga a interrogarsi sul perché di tanta sciatteria. Il cerchiobottismo "tutto allo Stato, tutto alle regioni" rispecchia infatti un problema assai serio, quello del ruolo rispettivo di Stato, regioni ed enti locali rispetto al patrimonio culturale. La riforma del Titolo V della Costituzione (2001) tentò una soluzione salomonica, attribuendo in via esclusiva allo Stato la tutela dei beni culturali, la valorizzazione alle regioni «salvo che per la determinazione dei principi fondamentali», riservata allo Stato (art. 116). Poiché le migliori pratiche internazionali e il giudizio degli esperti impongono di concepire come un continuum tutela, gestione e valorizzazione dei beni culturali, la rigida distinzione fra tutela e valorizzazione, che produce il frazionamento dell’azione amministrativa e la dispersione delle responsabilità, ha ben poco senso (lo mostrano i continui conflitti di competenza Stato-regioni davanti alla Corte Costituzionale); tanto più che la stessa parola "valorizzazione" è assai ambigua, e può essere interpretata in senso meramente economico. Il Codice dei Beni culturali, in particolare con la revisione del 2006 (governo Berlusconi), si è sforzato di metter ordine in questo ginepraio, specificando che la valorizzazione va intesa solo «al fine di promuovere lo sviluppo della cultura» (art. 6), dunque non autorizza svendite: inutile sforzo, se il comma 259 della Finanziaria 2007 (governo Prodi) reintroduce l’idea della «valorizzazione a fini economici» del patrimonio culturale.

Crescono intanto le pressioni delle regioni che (contro la Costituzione) rivendicano per sé le funzioni di tutela: così la Lombardia, con delibera dello scorso 4 aprile, così il Veneto (due delibere del 2006), così il Piemonte e l’Emilia-Romagna, così qualche anno fa la Toscana. La motivazione della Lombardia è esplicita: «per ricondurre a unità tutela, valorizzazione e gestione dei beni culturali». Si riconosce in tal modo che scindere tutela e valorizzazione è pernicioso, ma si individua nella regione, e non nello Stato, il luogo della ricomposizione: senza notare che in tal modo si arriverebbe a venti diverse concezioni della tutela, una per ogni regione, violando l’esigenza di unitarietà nazionale inscritta nella Costituzione.

E’ dunque evidente che la valorizzazione è la porta di servizio attraverso la quale le regioni intendono impossessarsi della tutela, capovolgendo nei fatti l’art. 9 della Costituzione. Per poi magari sub-delegarla ai Comuni, con le conseguenze che già si vedono dappertutto sul martoriato paesaggio italiano (Monticchiello insegni). Perciò è necessario prestare più attenzione a tutti i meccanismi di "valorizzazione", per esempio le Fondazioni in via di costituzione. Per citare un esempio, in quella per Aquileia, area archeologica di proprietà statale, la bozza di statuto prevede, contro l’art. 112 del Codice dei beni culturali, la presenza paritetica di Stato, regione Friuli, provincia e comune; il presidente della Fondazione è designato d’intesa fra regione e comune, il direttore è nominato dalla regione e per giunta il "Comitato rappresentativo" ha solo rappresentanti di comune, provincia e regione, e il Soprintendente può intervenire alle riunioni solo su invito. Insomma, la Fondazione è il cavallo di Troia per passare dallo Stato alla regione (in cambio di 160.000 euro l’anno) un’area di enorme importanza come quella di Aquileia. L’esatto contrario di quanto stabilito in un’importante sentenza della Corte Costituzionale (26/2004), secondo cui la valorizzazione deve far capo all’ente proprietario del bene (nell’area di Aquileia, lo Stato).
La materia della valorizzazione è stata profondamente innovata dal Codice nella revisione del 2006, dando assai maggior risalto alle esigenze della tutela e prevedendo meccanismi di azione concertata Stato-regioni, che nell’esempio appena citato appaiono disattesi. Ma all’appuntamento con le regioni la struttura ministeriale si presenta impreparata e debole, come è evidente dall’esempio delle Fondazioni (Egizio di Torino, Aquileia). Essa è ancora calibrata su funzioni, esperienze e competenze anteriori all’introduzione della "valorizzazione" come principio giuridico (magari pessimo, ma ineludibile perché inserito nella Costituzione). Direzioni generali, soprintendenze regionali e di settore sono "tagliate" sulle cose oggetto della tutela, dall’archeologia agli archivi; mentre per affrontare con decisione i temi della valorizzazione occorre un approccio necessariamente "trasversale", non commissioni consultive bensì una struttura centrale dedicata che possa affrontare con decisione e con visione unitaria il tema della cooperazione con le regioni e gli enti locali, dovunque e in qualsiasi forma esso si presenti. La (blanda) riorganizzazione del Ministero in corso potrebbe essere l’occasione buona.

Il colonnello di Palazzo Chigi a cui si deve l’"Albero del Programma di Governo" ha dato, è vero, un colpo al cerchio e uno alla botte. Ma la sua contraddittoria ambiguità riflette quella del governo, incerto e ondivago sul fronte "caldo" del federalismo. Ma quale sarà la vera azione di governo ? Si vorranno fortificare le soprintendenze e la tutela come ripete il ministro Rutelli e come dice una parte dell’Albero ? O si vorrà smantellare la macchina statale della tutela e cedere tutto alle regioni, come dice un’altra parte dello stesso Albero seguendo Lombardia, Piemonte e Veneto ? E in tal caso, basterà dimenticarsi dell’art. 9 della Costituzione, o si avrà l’onestà (etica e politica) di proporne la cancellazione ? Insomma: Palazzo Chigi è a Roma o a Macondo ?




centrosardegna
00martedì 8 maggio 2007 15:01
L'arroganza degli ARCHEOBUONI sardi
Dopo la Condanna del sindaco sardista di cabras denunciato da un sovintendente ai beni archeo... per aver aggiustato una polverosa strada ... ecco.





Lunedì 21/05 si terrà a Cagliari il convegno sulle "Pintaderas" o "Arrodas de tempus", "Il Calendario Nuragico". Lo Studioso-matematico NIcola de Pasquale presenterà i risultiati degli ultimi studi e delle scoperte effettuate in collaborazione con lo studioso dei Popoli del Mare Leonardo Melis. Il convegno si sarebbe dovuto svolgere con l'apertura della parte storica curata da Melis e de Pasquale avrebbe curato la parte scientifica. A questo punto capita qualcosa che crea lo scompiglio fra gli organizzatori: gli studiosi locali invitati (acheologi e cattedratici di "chiara fama") cominciano ad accusare malori di varia natura e declinano l'invito. Finchè uno studioso più "Chiarofamato" degli altri non fa il "passo risolutivo" e chiede l'ESCLUSIONE di Melis per poter ricucire con gli studiosi "Aventiniani". Gli organizzatori vincono il naturale imbarazzo e scelgono la via più semplice (e meno elegante), chiedendo a Melis di "rinunciare" alla conferenza di apertura e di partecipare quale invitato al dibattito, "dove avrebbe potuto dire la sua". Naturale e comprensibile la reazione di Melis...
Dopo il famigerato "documento-contro" firmato da 250 "personaggi" tra ARCHEOBUONI, CATTEDRATICI e CHIERICCHETTI ((per dirla alla Frau), e dopo la famosa esclusione dei due dalla trasmissione sui Shardana nella nota TV locale (a quanto pare sempre per richiesta dello stesso famigerato "Studioso chiarofamato")... ora si ha un altro "Rogo" della "Santainquisizione della Cultura" che in Sardinia pare abbia ancora un potere immenso. Potere tale da potersi imporre anche su organizzazioni e manifestazioni fuori dal "Pubblico Controllo" della Cultura di noi poveri e colonizzati "Sardi Pelliti".
centrosardegna
00mercoledì 9 maggio 2007 14:23
Va in onda la polemica su Monti Prama
Dei giganti di pietra si occuperà la trasmissione “La storia siamo noi”





La polemica all'ombra dei giganti. È bastata la presenza nel Sinis di una troupe della Rai, impegnata nelle riprese di un reportage-documentario incentrato sulla storia della statue di Monti Prama, per riaccendere una diatriba mai sopita. Il succo della controversia riguarda l'esposizione delle colossali statue di pietra arenaria rinvenute nel Sinis, nella località di Monti Prama, nella primavera del 1974.
Secondo alcuni, tra cui il sindaco Efisio Trincas e la professoressa Graziella Pinna Arconte, sarebbe un atto dovuto esporre le statue pre-nuragiche nella cittadina lagunare: «Abbiamo le competenze e le strutture adatte ad un'esposizione di questo tipo», hanno dichiarato alle telecamere della Rai, «inoltre i cittadini di Cabras hanno il diritto di conoscere le loro origini e di mostrarle ai turisti. Sarebbe un'iniziativa dalla duplice valenza: economica e culturale».
Tanto che i due si sono fatti promotori di una petizione popolare a favore del ritorno del-le statue nel loro paese d'origine. Un fatto anomalo, considerato che il Sindaco rappresenta istituzionalmente l'intera collettività cabrarese e non avrebbe necessità delle firme per dimostrarlo. Dall'altra parte della barricata si è schierata la dottoressa Mena Manca Cossu, portavoce della parte del paese che vede la que-stione da un altro punto di vista : «Cabras purtroppo non ha le strutture adeguate per i giganti di Monti Prama, il museo civico non è attrezzato per ospitare una quarantina di statue alte due metri e quaranta che, per la maggior parte, dovranno essere esposte supine.
Ad ogni modo, i giganti di Monti Prama rimarranno sempre un patrimonio cabrarese, ovunque saranno esposti».
Entrambe le fazioni portano alla ribalta nazionale valide motivazioni. Da una parte la necessità di mostrare le radici di un popolo dimenticato, in un luogo che probabilmente ne è stato la casa per diversi secoli; dall'altra la pochezza delle strutture espositive, deci-samente non adeguate ad una mostra di questo livello, anche sul piano della sicurezza.
L'unica soluzione in grado di mettere d'accordo la due parti sarebbe quella di ampliare e adeguare l'attuale museo civico, rendendolo capace di esporre al pubblico una scoperta archeologica che pare destinata a riscrivere di sana pianta la storia del Mediterraneo e dei popoli che lo hanno animato. Più facile a dirsi che farsi. Servirebbero soldi e tempo, da utilizzare, questa volta, per
il conseguimento di obiettivi concreti. Insomma, a questo punto non resta che attendere la messa in onda del reporta-ge firmato dalle giornaliste Alessandra Zatelli, Elida Sergi, Manuela Busalla e Valentina Pirredda, che dovrebbe essere trasmesso i primi giorni di giugno all'interno della trasmissione "La storia siamo noi", condotta da Giovanni Minoli.
Una ribalta nazionale di tutto rispetto per l'affascinate mistero di Monti Prama e, purtroppo, per le polemiche, che ne sono conseguite.
centrosardegna
00domenica 13 maggio 2007 20:40
Beni culturali, le Regioni fanno paura?
La Sardegna ha dimostrato
che si può lavorare insieme per la tutela






C'è un motivo serio per parlare di beni culturali. Anzi, meglio, ce ne sono due.

E cominciamo dal più facile: per ricordare che fino al 20 maggio in tutta l'Italia è arrivata la settimana della cultura voluta dal Ministero dei Beni culturali. Programmi molto interessanti, visite ai musei, tutti gli istituti statali impegnati con iniziative originali, così come amministrazioni locali e privati. Si può sapere tutto, quindi anche quanto riguarda la Sardegna, consultando il sito del Ministero (MIBAC).

Un secondo motivo è un intervento di Salvatore Settis su “La Repubblica” del 4 maggio, pubblicato sotto il titolo: “L'attacco delle regioni ai Beni culturali”.

Intanto Salvatore Settis: uno dei baluardi nazionali della difesa del nostro patrimonio culturale, direttore della Scuola normale di Pisa, professore ordinario di Storia dell'Arte e dell'Archeologia classica, accademico dei Lincei, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali dal 2006, di cui è vice Antonio Paolucci, già ministro dei Beni culturali. Quindi autorevolezza a iosa, in prima linea a denunciare i rischi derivanti dalle politiche di svendita del nostro patrimonio culturale attuate dal governo di centrodestra. Il tutto con una pubblicistica di alto livello scientifico e di documentata denuncia di quello che in maniera icastica definisce l'Italia s.p.a., come recita il titolo di un suo famoso libro.

Settis, sfogliando il cosiddetto albero del programma del Governo Prodi, sul sito dello stesso governo, si sofferma sul ramo “Valorizzare il nostro patrimoni di beni culturali e paesistici”. A cascata, questo il che fare. Ecco: consolidare l'organizzazione statale della tutela; incrementare le capacità operative delle Soprintendenze; rafforzare i poteri e l'autorevolezza dei soprintendenti; estendere le funzioni di tutela ai governi territoriali, lasciando allo stato le funzioni di alta garanzia generale.

Questo progetto, definito da Settis anticostituzionale, se reale, non solo testimonierebbe una sorta di sciatteria governativa nella gestione di una materia così delicata, ma farebbe pensare a una grande operazione delle Regioni per appropriarsi attraverso la valorizzazione anche della competenza in materia di tutela. Torneremo più avanti su questi concetti.

Intanto va riconosciuto che lo Stato ha i suoi meriti, grandi, nella storia della difesa dei nostri beni culturali. Si pensi solo al fatto che nel 1939 nascevano in Italia due leggi fondamentali che hanno espresso, in relazione ai tempi della loro approvazione, una cultura della tutela molto avanzata.

Ma che, nell'Italia di oggi, la salvaguardia debba passare necessariamente solo dall'amministrazione dello Stato e che le Regioni siano di per sé un pericolo non sembra affatto automatico.

Per ragioni, come si dice, del mio ufficio, sono testimone del fatto che in Sardegna questo assunto non è dimostrabile, non è lo stato negli ultimi trent'anni e dopo la nascita delle Regioni ad autonomia ordinaria, quando molte di esse si sono dotate di legislazione molto avanzata, per esempio, in materia di beni librari, allorché furono loro trasferite le soprintendenze. E ciò non fu nemmeno quando, con la delega alle Regioni delle competenze in materia di paesaggio, la tutela paesaggistica fu loro affidata, seppur con la folle e finale supervisione delle soprintendenze statali sugli atti di concessione di nulla osta.

Mi fu dato di incontrare il professor Paolucci che, nella sua veste di ministro dei Beni culturali, rendeva visita al presidente della Regione. Egli, soprintendente storico di Firenze, finissimo studioso, acconsentì a effettuare una visita lampo alla città. E fu facile dimostrargli come una serie di cose mostruose consentite dal dopoguerra ad allora non erano certo da attribuire alla sciatteria della Regione, delegata dal 1978, con norme d'attuazione. Delega concretamente esercitata solo dal 1984 e quindi la storia raccontava che quelle brutte cose di Cagliari non furono certo autorizzate dalla Regione.

Certo non esistevano allora le norme volute da Galasso sulla tutela del paesaggio e questo rende comprensibili molte cose, legate anche a una scarsa diffusione, a livello di coscienza collettiva, di una convinta e consapevole cultura della salvaguardia.

Esiste ancora, dura a morire, una cultura antiregionalista e proconsolare in un ministero tra i più centralisti. Io provengo da quei ruoli e so, ad esempio, che da quel ministero, per i beni librari, sono nate politiche straordinarie e profetiche per la lettera pubblica. Ma so anche che la Regione ha saputo onorare, sviluppare, diffondere quella filosofia delle sviluppo delle biblioteche e anche della tutela del ricco materiale librario raro, generando un servizio avanzatissimo e diffuso in quasi tutti i comuni sardi. Così come ha saputo assecondare, sopravanzando le intuizioni iniziali dello Stato, modelli altamente tecnologici di gestione del patrimonio, con la creazione di archivi informatici ora diffusissimi.

Oggi la Regione si è dotata di uno strumento rigorosissimo di tutela del paesaggio, che semmai è aggredito da interessi variamenti connotati per presunto eccesso di tutela, non certo per lassismo. E si era già dotata di piani paesaggisti, che furono annullati in sede di giurisdizione amministrativa, per carenze di tutela. Ma la Regione fu tra le prime a dotarsi di quel tipo strumento, che pur con le debolezze manifestate, appariva allora il risultato di uno sforzo culturale nuovo. La nascita delle Regioni a statuto ordinario determinò un'esplosione delle politiche di valorizzazione, con legislazione avanzatissima in materia di servizi bibliotecari e museali, poi sempre aggiornata nel tempo: ricordo la Toscana, l'Emilia Romagna, la Lombardia, la Puglia. È stata una stagione ricca di fermenti nuovi e le regioni furono un grande moltiplicatore delle politiche culturali, al di là e oltre le competenze.

Sarebbe, dice Settis, anticostituzionale la previsione di estendere alle Regioni, Province e Comuni competenze di tutela. L'art. 117 della Carta riserva allo Stato, in via esclusiva, quelle competenze. È invece competenza concorrente quella in materia di valorizzazione, spettando alle Regioni la potestà legislativa, eccettuata la determinazione dei principi fondamentali, lasciata allo Stato. L'art. 118 consente poi, anche in materia di tutela, forme di coordinamento tra Stato e regioni tramite la legge statale.

Non è questa la sede per affrontare problemi molto complessi, di interpretazione dell'assetto delle competenze come scaturisce dal nuovo titolo quinto della Costituzione, come, ad esempio, sui rapporti tra tutela e valorizzazione e sulla loro interdipendenza; e così sulla questione della gestione dei beni cui fa riferimento il decreto Bassanini sulla riforma della pubblica amministrazione. Né chi scrive se lo può permettere.

Ma la questione, politica, mi sembra essere questa: è possibile immaginare, fatta salva la difesa in capo allo Stato degli ambiti relativi al coordinamento, all'eventuale esercizio di funzioni sostitutive, alla garanzia di omogeneità delle politiche e degli standard, per esempio in materia di restauro e di catalogazione, o come dice l'Albero di Prodi, «alle funzioni di garanzia generale», in base al principio di sussidiarietà, un'evoluzione della materia che consenta che il livello (istituzionale) più alto non faccia ciò che può essere correttamente fatto da quello più basso?

Si può rispondere si.

Le autonomie hanno dimostrato via via chiarezza di obiettivi e determinazione nel perseguirli, come lo Stato e talvolta di più, se si pensa che proprio dallo Stato veniva l'idea di mettere all'incanto il nostro patrimonio culturale per fare cassa.

La Regioni, d'altra parte, hanno anche dimostrato di sapersi e potersi dotare di personale di livello almeno pari a quello centrale. Le eccellenze e le debolezze sono equamente diffuse e bastava e basta guardarsi intorno, ieri e oggi.

Siamo in Sardegna e guardiamo quindi alle cose di casa nostra. Noi abbiamo una consapevolezza del valore e della peculiarità della nostra storia. Il fondamento della nostra specialità, la sua ragione profonda sta nella nostra storia e per questo l'abbiamo difesa, anche quando sembrava che per noi quella specialità potesse persino essere una remora.

Ora abbiamo una legge sui beni culturali molto avanzata e manifestiamo nel settore culturale un dinamismo vivace e consapevole, seppur sovente appesantito da un'idea di sardità oppressiva e opprimente e nient'affatto liberatoria. La nuova legge si propone, superando concretamente e modernamente le discrasie concettuali insite nella scansione in tutela, valorizzazione e fruizione, il fine di favorirne l'integrazione, in una visione armonica con le politiche del territorio.

Visione unitaria, per valorizzare «beni, istituti, i luoghi della cultura, e i relativi contesti territoriali». Tutto ciò non in splendido isolamento, ma con lo Stato e in rapporto con Province e Comuni, i cui compiti, come quelli della Regione, vengono puntualmente definiti. Al piano regionale è affidata la definizione degli obiettivi ispirati ai principi della nuova legge. Musei e Biblioteche saranno organizzati in sistemi, nella logica della cooperazione e della condivisione di standard e strumenti tecnici.

La legge è complessa, ma manifesta la capacità della Regione di interpretare consapevolmente il proprio ruolo, candidandosi autorevolmente a svolgere un ruolo di prima linea in materia di beni culturali.

Certo la funzione dello Stato è essenziale e strategica e di garanzia e, diciamo, l'ha guadagnata sul campo, dal 1939 in poi. Ma anche lui con le sue debolezze e anche i rischi. Le Regioni anche loro con meriti, rischi e debolezze. La via dell'integrazione è, quindi, maestra. Questo stato plurale sta nella Costituzione, non è fondato sui proconsoli, ma sulla sussidiarietà, nella dignità di costruire assieme una storia civile e comune, cioè la stessa storia di tutti, senza primi della classe. E ricordando che le mani sulle nostre città sono state messe non in vigenza di competenze regionali. Allora quell'albero che possiamo scalare nel sito del governo può non essere così folle e manifestare la volontà di esplorare forme possibile di riconoscimento alla Regioni della loro capacità di operare. L'esperienza sarda mi pare lo dimostri.

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